Questa la tesi sostenuta da una psicologa e ricercatrice: guardare molto la televisione ci rende perennemente insoddisfatti
Tanto la musica (non necessariamente di Mozart) fa bene al cervello e alla psiche, quanto la televisione (è dimostrabile) fa male all’uno e all’altra; soprattutto fa male guardare in continuazione quei programmi che presentano versioni della realtà desiderabili e irraggiungibili (e sono la stragrande maggioranza, nei canali generalisti).

Confesso che mi ha fatto un certo effetto trovare questa tesi sul blog di una psicologa e ricercatrice. Guardare troppa TV aumenta l’insoddisfazione, dice Paola Bressan; e forse è proprio su questa insoddisfazione che l’industria televisiva fa leva.
Ovvero, più si è insoddisfatti della propria realtà ordinaria, più si va alla ricerca di quella straordinaria e altrimenti irraggiungibile; un po’ come avviene per le droghe.
Buone vacanze a tutti, e godiamoci fino all’ultimo istante la realtà straordinaria del dolce far niente, che perlomeno non crea dipendenza.
Aggiornamento. Prova a dare un’occhiata a quel che disse Pier Paolo Pasolini della televisione, nell’intervista pubblicata su questo post.
Ciao Rita, come va? Ho letto la tua riflessione sulla televisione. Se mi soffermo alla superficie del tuo discorso non posso non essere d’accordo con te: la televisione, in generale, può rendere infelici le persone. Potrei dire di più. Certa televisione le rende anche stupide. Ma questo sarebbe un altro discorso. Se scendo un pò in profondità però mi viene da porti questa domanda: la letteratura non proietta forse il lettore nella irrealtà così come fa la televisione? Leggere, come ha detto qualcuno, non è un pò come vivere vite diverse, altre, da quella che ci è toccata in sorte? Non è, forse, un modo di evadere da questo tempo e da questo spazio? Non siamo noi folla di lettori e/o scrittori esseri disperati in fuga da una realtà che non ci piace? Un bacio e ancora buone vacanze.
Emanuele
Proprio per quello che dici, cara Rita, come sceneggiatori dobbiamo proporre storie che facciano riflettere e puntino a creare una coscienza attraverso le suggestioni del racconto.
Caro Emanuele,
grazie per il tuo commento.
Immagino che la differenza fondamentale tra letteratura e televisione sia nel livello di attività del soggetto/oggetto fruente. La televisione occupa tutti i sensi del fruitore e non lascia quasi nulla alla sua immaginazione, mentre la letteratura lascia tutto all’immaginazione e quindi chi legge è più attivo di chi guarda la tivù.
Personalmente, come lettrice io di norma non utilizzo i libri come fuga dalla realtà, quanto come strumento per viverla meglio.
Inoltre, la letteratura è un’arte mentre la televisione, come diceva Eduardo, è un elettrodomestico.
Con tutto ciò, sarebbe sciocco disprezzare la televisione: è uno strumento potentissimo sia nel male che nel bene.
Per questo concordo pienamente con l’utente anonimo che ha lasciato il secondo messaggio, al quale faccio i miei più calorosi in bocca al lupo nella speranza che il suo alto impegno morale conosca un successo strepitoso!
Un abbraccio ad entrambi,
Rita
Cara Rita,
con buona pace di Eduardo, autore che non amo particolarmente perchè trovo la sua drammaturgia patetica e noiosa, è ovvio che quando parliamo di televisione non ci riferiamo solo ad un elettrodomestico. Sarebbe un pò come dire che quando discutiamo di letteratura parliamo di elementi di arredo (i libri) e non di emozioni. Usciamo dalle metonimie, dunque. Tu dici che la differenza tra letteratura e prodotto televisivo sta tutta nel diverso coinvolgimento del soggetto-fruitore. Mentre il secondo per essere fruito esige come sua condizione la totale passività dello spettatore (programmi interattivi, a parte), la prima, al contrario, lasciando spazio all’immaginazione del lettore, gli consente di sentirsi in qualche modo co-autore dell’opera. Insomma chi guarda subirebbe passivamente un prodotto già fatto con la sola libertà di poter cambiare eventualmente canale. Chi legge invece, sarebbe libero di interpretare la storia che sta leggendo filtrandola attraverso la sua insostituibile sensibilità. Posso anche essere d’accordo. Tuttavia la vera questione mi sembra sia un’altra. Ciò che è in discussione non è il modo in cui ci si serve di certi strumenti,ovvero il lavoro più o meno attivo cui siamo chiamati. Ma, a monte, le motivazioni psicologiche e/o antropologiche che ci spingono a prendere tra le mani un libro o a sederci davanti alla tv e, a valle, gli effetti prodotti da queste significative azioni. A me sembra, correggimi se sbaglio, che quella infelicità di cui si parlava non sia tanto l’effetto quanto la causa che ci spinge ad agire in una certa maniera. Significativa, appunto. Mi spiego. Io penso che chi è contento di sè e del suo mondo, chi è appagato o pienamente realizzato non avverta il bisogno o l’impulso di guardare altrove. L’arte per chi ne fruisce e, a maggior ragione, per chi la fa è uno sguardo rivolto altrove. Chi vive in armonia con il proprio Sè, chi non è in lotta con se stesso e con quanto lo circonda non sente il morso della creazione. Mi piace pensare che anche Dio ha creato il mondo in un momento di insoddisfazione. Forse di noia. la sua eterna beatitudine gli stava stretta e si è messo a scrivere copioni. Tragedie, commedie, opere buffe, melodrammi….Tu scrivi che per quanto ti riguarda non usi i libri come fuga dalla realtà, ma come strumenti per viverla meglio. Ebbene da dove nasce questa tua sospetta esigenza? Se la realtà in cui ti muovi ti sta bene perchè avverti il bisogno di migliorarti rispetto ad essa o, addirittura, di migliorarla attraverso la scrittura? Nannerl, la cara dolce Nannerl, è il tuo doppio o il tuo modello? E’, come direbbe Kundera, una possibilità esistenziale che hai esplorato o piuttosto un’esperienza che hai vissuto? Ti pongo queste domande perchè sono convinto che, tra gli artisti, gli scrittori siano quelli che più di tutti cercano il nuovo. Una nuova identità, ad esempio. Come ti spieghi il ricorso allo pseudonimo in certi casi anche celebri? Che cos’è uno pseudonimo? Una maschera dietro cui ci si nasconde o piuttosto l’altro che vorremmo essere? Nietzsche diceva che i nomi gettati sulle cose come abiti si attaccano ad esse in modo così stretto da diventarne addirittura il corpo. Dai un nome nuovo alla cosa che sei e quella cosa, che prima non ti piaceva, ti sembrerà all’improvviso così diversa da apparirti giusta. Sei un altro pur continuando a portare in giro la stessa faccia di prima: è sufficiente creare nuovi nomi, verosimiglianze, per creare, alla lunga, nuove cose.
Scusa se mi sono dilungato troppo, ma il tema è troppo affascinante.
Emanuele
Il ragionamento dell’anonimo mi sembra da ribaltare. Chi vive in armonia con se stesso non sente il morso della creazione? Impossibile: l’uomo deve creare per vivere (non come bruti). Chi vive in armonia con se stesso è soddisfatto delle proprie creazioni
Caro Leonardo,
approfitto dell’ospitalità di Rita per rispondere al tuo gentile commento. La tua indiretta citazione dell’Ulisse dantesco avvalora e non smentisce la mia teoria dell’insoddisfazione come principio del fare artistico. Se la condizione originaria degli uomini è la brutalità intesa in senso lato, l’uomo può uscire da essa solo lottando contro se stesso, cioè creando, a partire dal materiale che ha a disposizione, qualcosa di nuovo e di diverso. L’armonia di cui parlo è uno stato di immobilità che ha come sua condizione l’inconsapevolezza. E’ l’Eden da cui per fortuna una donna (chi poteva farlo altrimenti!) ci ha liberato. Grazie
ciò che cerchiamo in un libro non é la realtà, ma immaginazione, sogni, di cui nessuno dovrebbe fare a meno
Dirò di più, cara Laura: non si può proprio fare a meno dell’immaginazione. Il nostro cervello ha bisogno di creare delle immagini, per funzionare.
Tutti, durante il sonno, facciamo dei sogni più o meno complessi: sognare è una funzione necessaria della mente. Anche gli animali sognano, come sanno tutti coloro che hanno un cane che d’improvviso mentre dorme si agita e si mette a fare “uf, uf”. Che poi siamo in grado o meno di ricordare i nostri sogni, è tutto un altro problema. 😉
Ma perchè non si può creare semplicemente per il gusto di farlo? Per spezzare ,magari, la monotonia di una giornata che per vari motivi può essere scontata? Un momento in cui ci si può rinchiudere nel proprio Io, soli con il proprio foglio, il pianoforte, il pennello.
Sarà poi la “creazione” che parlerà di noi, che ci dirà se in quel momento eravamo tristi, malinconici o al contrario felici e soddisfatti.
Creare per sfuggire ad una realtà che non ci piace?
E’ vero, sempre più spesso la storia ci pone difronte ad artisti disperati, in balia di ossessioni, vita dissoluta ecc…
Ma secondo voi non esistono anche “creatori” che vivono una vita talmente splendida da volerla, attraverso la loro arte, condivedere con noi?
Io penso che tutti avete ragione, in quanto l’arte è un nobile mezzo per esprimere delle emozioni, positive o negative che siano. Può servire per evadere come pensa Emanuele oppure come strumento per vivere meglio la realtà, come dice lei Rita.
Un abbraccio Erminia Chiara Troisi
Grazie, Erminia Chiara, per aver rivitalizzato una discussione risalente a qualche tempo fa, e per il suo contributo. In tempi più recenti, e su argomenti diversi, Emanuele ha scritto un articolo per questo blog: lo trova qui. Un caro saluto, Rita