Una piccola pubblicazione autoprodotta che racconta un famoso quartiere romano com’era una volta

C’è un vecchio quartiere della capitale non distante dal centro e che anzi, secondo i canoni moderni, potremmo definire centrale; fino a non troppo tempo fa, però, era considerato un paesino di provincia e i suoi abitanti non dicevano “vivo a Roma”, ma “vivo a Monteverde”. In questo quartiere, nella via Lorenzo Valla, c’è un bar che anche oggi sembra un bar di paese, nel senso più bello del termine; ha una pagina su Facebook sulla quale è possibile curiosare tra immagini moderne e foto storiche della zona.
Mario Vitali, l’autore di Anna e Gianfranco. Un amore monteverdino è il proprietario del bar. Scrive anche una serie di racconti pubblicati sul mensile di quartiere Quattropassi. Il libro, presentato l’altro ieri, ricostruisce il passato di un rione che ha comunque conservato qualcosa di speciale; “Io a Monteverde ho ritrovato quello che mi piace della mia città”, ha detto uno degli intervenuti. Qui di seguito, la mia breve prefazione.

Seduta al bar davanti al cappuccino e alla fetta di ciambellone, ero immersa nella lettura del racconto “Quando Monteverde era un paese” che appare sul mensile Quattropassi; così immersa da non accorgermi che il cappuccino si freddava e diverse persone aspettavano che liberassi il tavolo. In quel racconto si respiravano alcune atmosfere di questo libro. Alla fine ho alzato gli occhi dalla rivista e li ho puntati in quelli di Mario Vitali: i miei erano pieni di lacrime, i suoi stupefatti.

L’autore afferma di aver elaborato questa storia nel desiderio di preservare un mondo, e alcuni modi di vita, che risalgono al secondo dopoguerra e non esistono più. E in effetti il mondo che lui dipinge, con tanto affetto e passione, sembra molto diverso dal nostro. I rapporti personali seguono regole precise, che li rendono talvolta simili a una recita; i sentimenti sono spesso camuffati, anche se mai soffocati fino ad estinguersi. I genitori costringono i figli a sposare chi vogliono loro e l’organizzazione famigliare segue una disciplina rigida, alla quale si può solo tentare di adattarsi; l’eventuale ribellione comporta il pagamento di prezzi altissimi. E quando si va a trovare un amico a casa, non si suona il campanello, ma si strilla il suo nome dalla strada… il libro ci trasporta in un universo paesano complesso, al cui interno si agita una piccola folla gioiosa e resistente, capace di furberie come di imbranataggini; una folla composta di individui che credono nei valori umani, ma che possono comportarsi in modo assai meschino.
Forse è vero che questo mondo non esiste più. Per quanto Monteverde assomigli a un paese anche oggi, non può non aver cambiato faccia, da sessant’anni a questa parte. E nelle famiglie del ventunesimo secolo, la disciplina gerarchico-militare è un ricordo sbiadito (per fortuna). Ma se l’autore si fosse limitato a ricostruire un pezzetto della nostra storia, avrebbe fatto un’operazione polverosa e stantia, e non avrebbe creato invece questo piacevolissimo e commovente racconto di vera vita e veri sentimenti. Con sobrietà e acutezza, lo scrittore afferra, interpreta e rappresenta l’umanità che risuona nel profondo di ognuno di noi, al di là del tempo. E alla fine della lettura restiamo con un senso del miracolo, del possibile, con una fiducia rinnovata nel sentimento di solidarietà, comprensione e indulgenza; poiché anche nelle persone incattivite una parte buona c’è sempre e poiché, se una persona è incattivita, non lo è quasi mai per colpa sua. Ancora una volta grazie, Mario.

Nella foto, di Monica Di Fonzo, un momento della presentazione.