Cinque domande a Ben Pastor

Parla l’autrice di Il Signore delle cento ossa, edito da Sellerio

Ben Pastor nasce a Roma e qui si laurea in lettere con indirizzo archeologico, dopodiché si trasferisce negli USA e sposa un ufficiale dell’aviazione militare (“Scrivo di soldati” sono le prime parole con le quali lei stessa si presenta sul suo sito). Dopo una rapida carriera accademica diviene docente universitaria di Scienze Sociali ed esercita presso diverse università americane, pubblicando numerosi saggi e articoli.

Parallelamente Ben Pastor inizia un’attività letteraria, in lingua inglese, scrivendo racconti e novelle nel genere del giallo storico e della “ghost story”, che ottengono il plauso della critica. Il suo primo romanzo, Lumen, è del 2000. Vi compare per la prima volta il personaggio di Martin Bora, ufficiale dell’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale e collaboratore dei servizi segreti – un gentiluomo di antica nobiltà guerriera dal temperamento severo, roso da una contraddizione: ha giurato obbedienza all’esercito e non può ribellarsi, ma cresce in lui la consapevolezza degli orrori dei nazisti, che disprezza per odio politico, per arroganza aristocratica, perché offendono il suo senso etico ed estetico. I successivi romanzi del ciclo di Martin Bora sono stati pubblicati in numerosi Paesi; il più recente è appunto Il Signore delle cento ossa.

Acquisita la cittadinanza americana senza rinunciare a quella italiana, perfettamente bilingue, Ben Pastor continua a scrivere in inglese, la sua lingua letteraria; quindi noi leggiamo i suoi romanzi in traduzione (il più delle volte di Paola Bonini, che ha anche tradotto quest’ultimo romanzo). “Mi sembra che questo dimorare sull’intrigante margine fra culture mi racconti meglio di qualsiasi altro dettaglio biografico” afferma la scrittrice. “Dall’esterno posso apparire affascinata da dicotomie inconciliabili: guerra e pace, passato e presente, crimine e giustizia, maschio e femmina, potere e mancanza di potere… Ma come è vero per i confini naturali, cioè che esiste sempre una terra di nessuno, mi rendo pienamente conto di tutto ciò che vive e brulica fra due opposti; ed è qui che come persona, scrittrice e studiosa preferisco passeggiare.”

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Il Signore delle cento ossa si colloca cronologicamente prima degli altri romanzi del ciclo; vi troviamo un Martin Bora agli inizi della carriera, alla vigilia dello scoppio della guerra. Siamo quindi anche alle origini del conflitto interiore che contraddistingue il personaggio. Che cosa ha rappresentato per lei, come autrice, l’esplorazione di questo territorio?

In realtà Martin Bora ha esordito come militare e come investigatore in un romanzo che si svolge nel 1937 durante la guerra civile spagnola (La canzone del cavaliere, Hobby & Work). Alle prese con un morto eccellente, il poeta Federico Garcia Lorca, è tuttavia ancora un giovane volontario idealista in terra straniera. Il Signore delle cento ossa lo presenta in ambito tedesco, in un sistema che sta già cominciando a impazzire (siamo solo pochi mesi dopo la “Notte dei cristalli” e i primi eccessi antisemiti). Questo comporta una presa di coscienza, se non ancora di posizione, che informerà il percorso del protagonista negli anni e nei romanzi a seguire. Per chi scrive, direi che costruire gli esordi di un personaggio di cui si conosce già parzialmente il futuro offre un’occasione squisita: infatti, permette di dare la forma desiderata a ciò che proietterà le ombre sul suo cammino. Nel caso di Bora ho avuto modo di esplorare influenze familiari e religiose, l’internazionalismo della sua educazione, le sue ribellioni giovanili: ognuno di questi elementi avrà un gioco nelle sue scelte future. È stato un po’ come aprire un bocciolo o un seme per vedere quanto della pianta a venire sia leggibile (o immaginabile) all’interno.

Come è cambiata, nel tempo, la sua relazione con Martin Bora, e come è cambiata la relazione di Martin Bora con Ben Pastor?

Astuta domanda. Va al cuore della reciprocità che si instaura fra i romanzieri e i loro personaggi principali. Come molti scrittori, ho l’impressione che in realtà il processo creativo sia un’attenta mescolanza di osservazione e di tecnica. Inoltre, sono convinta che qualcuno come Martin Bora (a parte il suo avatar storico, Claus von Stauffenberg) sia esistito, e che si tratti di ascoltare e descrivere ancora prima che scrivere. Disegnata, certo, ma anche desunta da quel che sappiamo del milieu di centinaia di giovani ufficiali come lui, la sua personalità è completa, reattiva, indipendente quanto quella di qualsiasi figlio che alleviamo ma che appartiene prima di tutto a se stesso. Nel tempo ho imparato a fidarmi di alcune sue decisioni, a lasciarlo fare anche quando sapevo che stava sbagliando; puntualmente Martin mi informa e rende partecipe – ma fino a un certo punto. Così fanno i figli adulti, e così deve essere.

Lei, che nella narrativa predilige argomenti così poco “donneschi” e che, come studiosa, si occupa anche di femminismo in letteratura, ritiene che l’attività di una scrittrice si differenzi dall’attività di uno scrittore? Esiste una “scrittura femminile”?

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Ben Pastor. Foto: El Paìs

Questa annosa questione, per come la vedo io, è una non-questione. A mio avviso, l’artista più riuscito è quello il cui lavoro (scritto, dipinto, musicato) non è ascrivibile alla sua appartenenza sessuale. In realtà mi sembra che si debba distinguere fra una letteratura di argomento e ambiente femminili e la “scrittura femminile”. Madame Bovary e Solomon’s Song, entrambi romanzi con forti protagoniste, sono capisaldi della letteratura tout court, non importa che ne siano autori un uomo come Gustave Flaubert e una donna come Toni Morrison. La loro voce è totalmente inclusiva. Per “scrittura femminile”, non a torto, si intende l’uso di una voce che esclude per timbro, tono e scelta delle parole il mondo esterno a quello delle donne. Come esistono scrittori “per uomini” (negli Stati Uniti, ad esempio, molti autori di western e thriller tecnologici), esistono scrittrici “per donne” (Barbara Cartland, un nome per tutte). Ma perché limitarsi? Nella mia esperienza accademica e nelle mie frequentazioni di alcune delle grandi scrittrici di pedagogia femminista, ho imparato che la questione della donna si combatte realmente su pochi fronti: eguaglianza salariale, rispetto reciproco, pari opportunità. Il resto, da una parte e dall’altra, è spesso solo tendenzioso commentario.

Come lettrice, solitamente preferisce leggere libri scritti da donne o da uomini? E perché?

Dati i miei interessi, specialmente per quel che riguarda la storia contemporanea e militare, mi trovo a frequentare una maggioranza di autori maschi. Ma ci sono grandi eccezioni: per esempio, il miglior saggio sul soldato sovietico è di Catherine Merridale, e quanto all’antichità, altro mio forte interesse, ho trovato stelle femminili di prima grandezza: Eva Cantarella, Karen Dixon e Pat Southern, Ann Hyland. Dal punto di vista della narrativa, anche se dalla mia lista di autori favoriti sembrerebbe emergere una predilezione per gli uomini, in verità si tratta ancora una volta di scelta degli argomenti trattati. Il “problema” semmai è a monte: non mi interessano particolarmente le storie d’amore, le saghe familiari, i romanzi di domesticità quotidiana: e questi spesso sono il soggetto preferito di molte – anche ottime – scrittrici. Dato che scrivo in inglese, i miei riferimenti letterari sono in quella lingua: tra le mie preferite sono la già citata Toni Morrison, Emily Dickinson (una “falsa” cantrice di domesticità), e perfino la grande e quasi dimenticata Harriet Beecher Stowe.

Le statistiche ci dicono che le donne leggono più degli uomini. D’altra parte, i libri più “visibili” (premiati, o che entrano in classifica) sono spesso scritti da uomini. Ritiene si tratti di una contraddizione rilevante? E a che cosa è dovuta?

Mi pare che queste statistiche siano particolarmente vere per l’Italia, molto meno per altri paesi. Non sono affatto sicura di sapere perché si prediliga premiare autori di sesso maschile. Mi sembra di capire che politiche editoriali, amicizie e favori incrociati non siano estranei ad alcuni ambienti di giurie letterarie e di premiazioni: se questo è anche solo parzialmente vero, allora una preponderanza di pubblico femminile (o di qualsiasi pubblico) non gioca un ruolo affatto rilevante nell’assegnazione dei riconoscimenti. In inglese si dice: It’s not what you know, it’s whom you know, ovvero: “Non è quel che sai, è chi conosci”. Dobbiamo desumere che i maschi sgomitano più delle donne quando si tratta di ricevere premi? È del tutto possibile, ma qualsiasi tipo di prepotenza o ingerenza nulla ha a che vedere con la qualità intrinseca. Le mie colleghe femministe sarebbero d’accordo…

About

Questo è il sito di Rita Charbonnier, autrice dei romanzi Figlia del cuore (di prossima uscita per Marcos y Marcos), La sorella di Mozart (Corbaccio 2006, Piemme Bestseller 2011), La strana giornata di Alexandre Dumas e Le due vite di Elsa (Piemme 2009 e 2011). Scopri di più...

    5 commenti su “Cinque domande a Ben Pastor

    1. Intervista davvero interessante a un’autrice italiana che è però un peccato dover apprezzare solamente tradotta, per quanto possa essere bravo il traduttore. Mi fa pensare alla nostra solita fuga di cervelli, che estenderei a fuga di cuori, visto che non è solo col cervello che si scrive, anzi! 🙂

      1. Eh sì, caro Matteo, la fuga di cervelli e cuori… tu poni l’accento su una questione ben presente a molti di noi. E sono d’accordo con te: l’intervista è di grande interesse (per non parlare del romanzo). Grazie e a presto.

    2. L’intervista è molto densa, però mi pare che nella risposta alla domanda 3, Dinamo si sia fatto piccino e non gli è piaciuta la risposta dell’autrice (a Dinamo, io ne sto fuori, faccio parlà lui).
      Mi spiego, ponendola così: se uno scrittore morisse avvelenato dai topi o dalla cattiva cucina di un ristorante, e, per assurdo, chi è preposto a queste decisioni (un editore divino, sicuro, un editore “celeste”) gli desse la possibilità di continuare a scrivere dal cielo, morto, ed essere distribuito ancora nel mondo come si distribuisce Saviano, voi lettori come ci rimarreste se quello scrivesse scrio scrio le stesse cose nello stesso modo di prima, di quan’era vivo?
      Io, dal cantor mio, direi “oh, ma questo scusa che c* è morto a(f)fare? sarà n’affare di marketing editoriale, non è morto affatto…. scrive com’a prima!”

      Ora, fuor di scherzo, io amo le diversità, mi fanno sentire vivo e (brodo) vegeto, e quindi credo nelle scritture che mettano in piazza i propri panni sporchi, le proprie bellezze, le proprie stortezze e tutto… tra le proprie peculiarità, c’è anche l’esser di genere maschile o femminile, l’esser M, S, XL, XXL, ecc.
      Non credo quindi nella scrittura codificata maschile, né nella scrittura codificata femminile, perché sarebbe come dire che dobbiamo far di tutto per farci rinchiudere nella padella delle carote, piuttosto che in quella degli spinaci o dei broccoletti di Bruxelles. Io se sono broccolo, mi piace esser broccolo.
      Quindi per me più roba nostra mettiamo quando si scrive, più è meglio (come dicono i retori). Dice Ermanno Cavazzoni che se uno ha dei difetti, dei guasti fisici, delle orecchie a sventola, dei denti rotti, è avvantaggiato a scrivere rispetto a chi è bello e perfetto, proprio perché quelle disavventure fisiche veicolano il nostro linguaggio e la nostra scrittura.
      Premesso quindi che una grande penna è una grande penna, credo debbano esserci delle differenze, che si debba ravvisare un uomo, una donna, un marziano, un morto ecc dietro le pagine che leggiamo, che non si debba tendere ad ogni costo al modello canonizzato maggioritario, ma attenersi alla propria minorità.

      Che poi ci sia la tendenza a fare le classifiche e a relegare di serie b alcuni generi e scritture percepite come “basse” perché non seguono la ricetta aristotelica e di Tal de Tali, è un discorso molto diverso, che ora esula.

      un saluto a tutti

      1. Caro Dinamo, grazie dell’intervento. Ho posto quella stessa domanda a numerose scrittrici, qui sul blog, e ognuna ha risposto in modo diverso. E’ un’annosa questione, come dice Ben Pastor… essere ascritti a una categoria non piace a molti (e se è per questo neanche a me), anche se può (non è detto) offrire il vantaggio de “l’unione fa la forza”. L’esempio estremo che fai tu, quello dei vivi e dei morti, non presenta il rischio della riduzione a uno stereotipo; mi sembra che questo, soprattutto nel caso di “maschile” e “femminile”, possa essere il problema. Cari saluti a te!

      2. Le categorizzazioni non piacciono nemmeno a me, e sta bene, però io credo fermamente che il nostro corpo debba esser versato dritto dritto (un pezzo alla volta eh, senza esagerare) dentro la pagina. Già parlando di corpo, mbè, già si è nei concetti cari alla letteratura di genere, alla letteratura femminile, che ha contribuito a sdoganare, in quanto critica letteraria, il corpo in letteratura, visto che i canoni classici dominanti sono improntati al razionalismo. E’ indubbio che anche i contro-canoni abbiano prodotto una retorica che pretende di diventare forza normativa: in questa accezione, sono d’accordo colla Pastor.

        Sui generi dico solo che li trovo interessanti quando vengono divelti, ovvero sedotti e abbandonati. Diciamo che molti scrittori usano i generi come degli strani animali che si chiudono da soli in gabbia solo per evaderne e far saltare tutto. O li si possono usare per estenderne le loro potenzialità espressive e concettuali, come Sciascia ha fatto col giallo.
        Un uso pedissequo del genere non mi interessa in sé, eccetto pochissimi casi in cui si fa l’eccellenza colle regole trasmesse dal canone.

        La pensiamo simile, credo io, solo che come ben dici, la questione è piena di angoli acuti e spigolosi.
        ciao Rita

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