Al giorno d’oggi le idee “sono di tutti” e il diritto d’autore non ha più ragione di esistere?
Articolo di Geo Magri
Quando la cultura ha cominciato a diffondersi in tutte le classi e a non essere più retaggio di pochi privilegiati, gli ordinamenti hanno avvertito l’esigenza di tutelare chi la cultura la produceva. Ecco perché, a differenza di molti altri diritti, il diritto d’autore (o copyright, come talvolta viene un po’ impropriamente definito) ha una storia piuttosto recente, che generalmente si fa risalire allo Statuto di Anna, nell’Inghilterra del XVIII secolo, e che poi si è sviluppata nell’Europa continentale attraverso gli ideali della rivoluzione francese.

Il dibattito sul diritto d’autore non ha interessato soltanto i giuristi; grandi filosofi si sono occupati della questione in modo approfondito e, tra i padri illustri delle società che i diritti d’autore gestiscono (la SIAE, per intenderci), figurano artisti come Verdi o Manzoni.
Proprio Alessandro Manzoni, con I Promessi Sposi, scrisse non soltanto una pagina della letteratura italiana, ma anche un intero capitolo della storia del nostro diritto d’autore. Il processo Manzoni c. Le Monnier – volto ad impedire che I Promessi Sposi venissero stampati, in edizione precedente alla sciacquatura dei panni in Arno e contro la volontà dell’autore – è rimasto un vero e proprio leading case per gli studiosi della materia e, come vedremo, è ancora attuale.
Perché il diritto d’autore è importante?

Un ipotetico nemico del copyright potrebbe domandarci: se l’uomo, sino ad epoca relativamente recente, è vissuto senza diritto d’autore, perché oggi dovrebbe considerare tale diritto irrinunciabile?
La domanda è legittima e ha una risposta articolata con risvolti di carattere morale e patrimoniale. Innanzitutto, il diritto d’autore è protetto perché si ritiene, forse un po’ utopisticamente, che chi crea debba poter trarre sostentamento da ciò che produce. Da un certo momento in poi, i legislatori hanno ritenuto che, esattamente come avviene con il falegname, che viene retribuito per il mobile fabbricato, anche l’autore debba trarre un reddito da ciò che scrive.
Il copyright, offrendo un reddito, doveva favorire la crescita e lo sviluppo culturale: con la tutela patrimoniale del diritto d’autore gli autori non avrebbero più avuto bisogno di un mecenate da compiacere, ma, grazie al loro pubblico, avrebbero goduto di maggiore libertà creativa.
Una seconda motivazione a favore del diritto d’autore è di natura morale. Chi crea un’opera ha diritto non solo a trarne profitto, ma anche ad esserne riconosciuto come padre (“proprietario”). Per questo motivo il diritto d’autore è stato avvicinato al diritto di proprietà, diritto che la tradizione illuminista annovera tra i diritti fondamentali dell’uomo (si veda l’art. 2 della celebre Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen de 1789).
Facciamo un passo in più: essendo l’opera dell’ingegno frutto del lavoro della mente ed espressione della personalità dell’individuo che la crea, il diritto morale dell’autore diventa un vero e proprio diritto della personalità, cioè un diritto che contraddistingue l’individuo. Esattamente come avviene con il diritto al nome, all’immagine o alla riservatezza.
Mentre il diritto patrimoniale d’autore, ossia il diritto di ricavare denaro dal proprio intelletto, può essere ceduto a terzi (ad esempio attraverso un contratto di edizione), il diritto morale d’autore, come tutti i diritti della personalità, è indisponibile e non è soggetto a termini di prescrizione.
Diritto d’autore: al giorno d’oggi le idee “sono di tutti”?

Oggi il tema del copyright è tornato di particolare attualità con riferimento alla rete internet e ai nuovi utilizzi del materiale protetto che essa consente. Sempre più spesso si sentono voci che vorrebbero rendere la rete una sorta di “bene comune”, in cui tutto deve essere libero ed accessibile, come se le idee fossero di tutti e di nessuno.
A questo proposito suonano di estrema attualità le parole che il Prof. Boccardo scrisse in un parere sulla rivista l’Avvertenza, nel quale, nell’affaire Manzoni – Le Monnier, prendeva le difese dell’editore:
Manzoni stampa, nel 1827, i Promessi Sposi… si fanno a diecine, a centinaia le edizioni del più bel racconto che vanti la patria letteratura. Nessuno si oppone. Manzoni si adatta a questa invidiabile persecuzione di un popolo intero ostinato a leggerlo e ad ammirarlo. Il libro, quale primieramente uscì dal suo genio immortale, è fatto patrimonio comune… Manzoni, nel 1845, crede d’accorgersi che il suo libro ha mille difetti di lingua, sebbene l’Italia, rispettando quella del venerando scrittore, porti ben diversa opinione. Egli fa una nuova edizione, in cui agli originali lombardismi sostituisce forme e modi raccolti sulle rive dell’Arno. Ecco un nuovo libro: il primo era divenuto da tanti anni proprietà dell’Italia, del secondo è solo padrone, finché viva, l’autore.
Felice Le Monnier, consapevole che l’Italia continua a considerare come un tesoro quel primitivo libro che Manzoni ripudia, ne esegue una ristampa sopra un’edizione del 1832, nè si crede punto in debito di domandarne l’assenso all’autore, perché quella edizione era da tanti anni passata nel dominio del pubblico…”.
Ecco che Boccardo tira fuori, con un secolo e mezzo di anticipo, quella che oggi in molti vedono come una grande innovazione della rete: ciò che sta in rete deve essere “patrimonio comune” di tutti quelli che alla rete hanno accesso.
Alla base delle motivazioni che spinsero Manzoni a fare causa non c’erano soltanto delle legittime richieste economiche. Egli lamentava il fatto che Le Monnier, ristampando una versione del suo romanzo, che lui riteneva superata e non più adeguata, lo aveva privato del controllo e della paternità della sua opera. In sostanza, si era impossessato di una sua idea e continuava a mantenere in vita una cosa che egli ripudiava. Il 20 dicembre 1862 la Cassazione di Firenze archiviò la tesi dei Promessi Sposi bene comune e diede ragione a Manzoni.
La rete Internet: “bene comune”?

Il rischio corso da Manzoni, in qualche misura, è lo stesso rischio che corre chi, oggi, mette un proprio elaborato in rete, specie se dovesse accreditarsi la tesi per cui tutto ciò che è in rete diventa patrimonio comune, senza che l’autore possa mantenere una paternità delle proprie idee ed un controllo sulla loro diffusione.
La rete bene comune pare sicuramente un pregio se contribuisce a diffondere cultura e informazione, mi pare che diventi un rischio se porta l’orologio indietro di tre secoli e cancella il diritto dell’autore sulla propria idea e alla propria identità.
Il rischio indissolubilmente legato a questa idea è che gli autori che hanno qualcosa da dire fuggano dalla rete per il timore che, qualunque cosa dicano, diventi un bene liberamente appropriabile e modificabile e che nella rete ci restino solo quelli che da dire non hanno niente o che, fuori dalla rete, nessuno ascolterebbe. E ciò, si badi bene, anche a prescindere da una questione meramente patrimoniale.
Che la preoccupazione di difendere interessi di carattere patrimoniale sia soltanto uno degli aspetti della questione è confermato dall’esperienza Creative Commons, che consente la condivisione gratuita, con alcune limitazioni, di quelle che sarebbe opere tradizionalmente protette dal copyright. Tale tipo di licenza, nata soprattutto con l’idea di facilitare la condivisione e la diffusione della ricerca scientifica (ad esempio, il Cern di Ginevra pubblica tutte le foto relative alle ricerche con licenza Creative Commons) si sta diffondendo anche in altri contesti.
Creative Commons dimostra che chi difende il diritto dell’autore sulla propria idea, può essere mosso anche soltanto dal desiderio di garantire e tutelare un diritto fondamentale dell’autore: quello alla propria personalità e non necessariamente dalla volontà di lucrare o impedire la circolazione della cultura.
Uno slogan, spesso abusato, dice che le idee sono di tutti. A me sembrerebbe più corretto dire che le idee sono di chi le ha e tutti le possono usare.
Geo Magri
Laureato in Giurisprudenza a Torino, dove ha anche svolto il dottorato di ricerca con una tesi in materia di acquisto a non domino e beni culturali, Geo Magri ha esercitato la professione legale fino al 2010. Si è trasferito quindi in Germania, per dedicarsi unicamente alla ricerca. Attualmente lavora a un progetto dedicato ai diritti reali in Europa presso lo European Legal Studies Institute di Osnabrück.
Interessante articolo.
Mi piacerebbe sapere l’opinione di Geo Magri su questo scritto di K Fogel:
http://questioncopyright.org/promise/it
dove si sostiene che la nascita del copyright sia stata una questione di censura, non di protezione dell’autore.
L’altra cosa che noto è che Manzoni ha perso il controllo sulla sua opera del 1927, ma non la sua peternità. Nessuno ha spacciato per proprio il romanzo di Manzoni. Nell’articolo ho avuto l’impressione che le due cose si confondessero. Col senno di poi possiamo dire “per fortuna”, che se fosse accaduto oggi su amazon con un prodotto sotto DRM sarebbe stato cancellato da ogni kindle (giù successo con 1984 di Orwell) e addio storia della letteratura italiana.
Ad oggi, nonostante i nostri desideri di correttezza, ogni opera digitalizzata resa pubblica, per quanto protetta, è de facto fuori dal controllo dell’autore e dell’editore. Nessun DRM è riuscito a durare più di qualche mese prima di essere scardinato e scovare la copiatura indebita è solo questione di fortuna. Per lavori poco noti può essere quasi impossibile.
Le licenze CC sono utili ai fini legali e morali, ma quante violazioni (incredibile, ma ci sono anche quelle!) delle licenze CC sono state punite?
Pagare chi lavora ad un’opera è un sacrosanto diritto, ma non si può pensare di raccogliere i fondi come si faceva con le opere analogiche.
Grazie del contributo. Da parte mia, mi sembra che affermare “è difficile proteggere le opere digitalizzate” non equivalga a sostenere la liceità della sottrazione dei diritti a coloro che li detengono. Per una risposta più specifica e puntuale, attendiamo l’autore dell’articolo.
Non mi sognerei mai di affermare che una cosa illecita è lecita perché si può fare. È auspicabile, invece, che la legge si adegui alle attuali possibilità tecnologiche.
Le CC vanno in questo senso: cercano di avvicinare il “giusto” dal punto di vista dell’autore con il “giusto” dal punto di vista del fruitore. E ci riescono, dal punto di vista teorico. Nonostante questo, c’è chi fa il furbo.
C’è ancora molto da lavorare…
PS: non era 1927, ma 1827 nel precedente commento.
Ho letto con interesse l’articolo di Fogel.
Non condivido, però, la sua analisi, che mi pare semplificare un po’ troppo il problema del diritto d’autore ed unire aspetti assai diversi.
A me pare, infatti, che un conto siano l’industria della stampa e la censura e che, una cosa ben diversa, sia il diritto d’autore.
Gli stampatori conoscevano il privilegio secoli prima della nascita del diritto d’autore. Chiunque si interessi un pochino di storia del libro (che non è certo nata in Inghilterra, come sembrerebbe leggendo il pezzo di Fogel) sa bene, ad esempio, della lotta che Aldo Manuzio fece per avere il privilegio ed essere l’unico a poter stampare.
Dunque, sotto questo aspetto, l’analisi non mi convince affatto.
Inoltre, l’analisi di Fogel mi sembra confondere il diritto patrimoniale d’autore con il diritto morale. Un conto è trarre profitto dalla stampa, un conto è essere riconosciuto autore ed autorizzare la stampa dell’opera e le sue eventuali ristampe. Questo secondo aspetto, però, mi sembra sfuggire all’analisi di Fogel.
Parimenti non mi convince l’idea che il diritto d’autore non abbia tutelato gli artisti.
Pensiamo, tanto per fare esempi pratici, ad un musicista come Mozart: fino a quando viveva da cortigiano (ossia con un mecenate e senza diritto d’autore) ha composto quello che il Principe arcivescovo di Salisburgo (ossia chi gli pagava lo stipendio) voleva, non quello che Mozart come artista desiderava. Appena si è liberato dal rapporto di subordinazione, la qualità artistica del suo lavoro è aumentata smisuratamente.
Purtroppo, ai tempi di Mozart, il diritto d’autore era ancora allo stato embrionale e lui è morto in povertà, ma se pensiamo a un Beethoven, a un Rossini o a un Verdi ci è subito evidente che, con il diritto d’autore, non si sono arricchiti solo i vari Breitkopf & Härtel o Ricordi, ma gli artisti stessi si sono garantiti libertà e agiatezza.
Passando all’esempio di Manzoni: mi è chiaro che un conto è il diritto morale d’autore (la paternità dell’opera), un conto è il diritto a trarre profitto da essa.
Il problema di Manzoni era che, non solo gli avevano sottratto delle entrate, ma un’opera, che Manzoni non considerava degna di circolare, continuava ad essere venduta, CONTRO la sua volontà.
Nessuno si è spacciato per l’autore del romanzo, ma qualcuno si è arrogato il diritto di farlo circolare, in una versione che l’autore desiderava fosse eliminata.
A mio modo di vedere, solo all’autore spetta decidere se, e fino a che punto, l’opera deve essere data alle stampe o resa accessibile al pubblico.
Così come trovo giusto che all’autore sia riconosciuto un compenso per la sua attività intellettuale.
Quello su cui sono, invece, pienamente d’accordo è che il diritto d’autore pensato per il materiale non possa funzionare con riferimento al digitale.
Su questo aspetto, l’industria cinematografica, musicale ed editoriale stanno combattendo una battaglia di retroguardia, che non potrà avere successo. Sono però abbastanza convinto che, presto o tardi, prenderanno atto che, sul mercato digitale, il loro spazio si marginalizza e che, nel medio periodo, il sistema di gestione dei diritti d’autore verrà completamente rivoluzionato con riferimento al mondo digitale.
Sotto questo aspetto, però, i problemi sono talmente tanti, che dubito ci sia spazio in questo commento.
Grazie per l’articolata risposta. Me la studierò ben bene e ci penso su. 🙂