Le donne e l’arte: Artemisia Gentileschi

Una grande pittrice, purtroppo più conosciuta per le sue vicende personali di quanto non lo sia per la sua arte

Articolo di Penelope Filacchione

Autoritratto di Artemisia Gentileschi
Artemisia Gentileschi, Autoritratto come martire, particolare (Wikimedia Commons, pubblico dominio)

Quando si pensa a una pittrice, da qualche decennio a questa parte il nome di Artemisia Gentileschi è il primo che torna alla mente, spesso l’unico: purtroppo molta della sua fama è strettamente connessa con le vicende della sua vita privata. La questione dello stupro è stata più volte sviscerata nell’ottica della psicoanalisi moderna, fino a cristallizzare la vita di questa donna attorno a quell’evento: rischiamo così di perdere la prospettiva storica, sacrificando a un tragico momento la comprensione dell’intera produzione artistica di una grande pittrice.

Vale la pena notare che Orazio Gentileschi intentò una causa contro Agostino Tassi non per lo stupro della figlia, ma per averla deflorata e aver giaciuto con lei più volte ancora come un fidanzato, mentre il vile era in realtà già sposato con un’altra donna. La questione non era lo stupro, ma la mancata promessa di matrimonio: una fanciulla abbandonata era a tutti gli effetti disonorata e avrebbe trovato marito con difficoltà. Era quindi cruciale che il mondo sapesse che Artemisia e suo padre erano stati ingannati.

Probabilmente per far colpo sul tribunale, Orazio calcava la mano perfino sulla data di nascita della figlia, dicendola nata nel 1597 anziché nel ’93: all’epoca dello stupro (6 maggio 1611), Artemisia aveva infatti diciassette anni, essendo quindi in età per un rapporto consensuale, diversamente da una ragazzina di tredici anni. I testimoni a favore di Agostino Tassi minarono la credibilità della fanciulla e di suo padre, dato che lui invece di “preservarla” la portava a visitare i cantieri degli affreschi: per questa ragione fu sottoposta a tortura, ritenuta necessaria dal giudice per verificare l’attendibilità delle affermazioni. Due giorni dopo la conclusione della causa (ottobre 1612), Orazio concordava il matrimonio tra sua figlia e Pierantonio Stiattesi (1584-post 1630), pittore fiorentino di scarsa qualità ma esperto dell’ambiente, e procurava loro la presentazione per la corte medicea nel Granducato di Toscana, dove gli sposi giunsero nel 1613. Qui Artemisia cambiò nome, riprendendo il Lomi degli antenati paterni, sia per affermarsi autonomamente, sia per cancellare la memoria del processo.

Artemisia Gentileschi, Giuditta con la sua ancella
Giuditta con la sua ancella, 1618-1619 (Wikimedia Commons, pubblico dominio)

Orazio aveva formato alla buona pittura questa figlia particolarmente talentuosa, prevedendo probabilmente di farne la propria aiutante/ collaboratrice. Essendo lui la “testa pensante” della bottega, forse non aveva ritenuto necessario dare una particolare educazione alla ragazza, che si trovava così già riconosciuta pittrice a vent’anni, ma era analfabeta — al processo firmò con una croce — e a malapena a conoscenza dei costumi del mondo.

La ritroviamo poco tempo dopo a Firenze, ben inserita nella società colta del granducato: ha imparato a scrivere (in maniera paurosamente sgrammaticata, ma non peggio di altre sue contemporanee), sa cantare, danzare, suonare uno strumento musicale, si comporta come una donna di rango decisamente superiore al proprio. Il marito Pierantonio, tutt’altro che figura di secondo piano, che proveniva da una famiglia più colta e vantava lo scrivere elegante dei suoi tempi, deve aver fatto molto per raffinare la giovane moglie investendo tempo ed energie su quel fenomeno di “pittoressa”: dalla lettura dell’epistolario si comprende che i due sono una vera coppia imprenditoriale.

Dopo aver partorito una figlia “regolare” con il marito, Artemisia Gentileschi ha come amante il nobile coetaneo Francesco Maria Maringhi che la protegge, al quale il marito si rivolge senza riserve e, anzi, pretendendo sostegno economico e aiuto nelle questioni giudiziarie che coinvolgono la coppia, proprio in virtù del fatto che gli ha “ceduto” la moglie! Si intravvede tra le righe un singolare triangolo, in cui il marito ha un chiaro ruolo di impresario: un rapporto non facile, che prosegue tra gelosie e rappacificazioni fino al 1623, quando Stiattesi esce definitivamente di scena, sostituito a fasi alterne dall’amante fino alla morte dell’artista avvenuta a Napoli nel 1652.



Negli anni della separazione dal marito — nel 1627 Artemisia scrive a Firenze per sapere se è ancora vivo! — l’artista è protetta da personaggi influenti della corte fiorentina, a iniziare da Michelangelo Buonarroti il Giovane e da Galileo Galilei e, soprattutto, dall’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove figura come prima donna in assoluto a essere ammessa presso la prestigiosa istituzione.

In questo senso Artemisia Gentileschi è davvero una donna fuori dal comune: nei suoi spostamenti, di nuovo a Roma, quindi a Venezia e poi a Napoli, riesce sempre a inserirsi nei circoli intellettuali migliori. Purtroppo questo le costa una lunghissima rottura con il padre, che la rimprovera di aver sperperato la dote, di aver danneggiato i rapporti con il Granducato, di aver disonorato se stessa: il rapporto con Orazio si rinsalderà solo alla fine della vita di lui, quando Artemisia lo raggiungerà brevemente a Londra per aiutarlo a completare una grande commissione.

La pena di tanta libertà è presto detta: Artemisia Lomi, donna, artista, imprenditrice inserita in un mondo di affari esclusivamente maschile, deve rivolgersi agli uomini per ottenere aiuto economico e sostegno morale. Per tutta la sua vita patisce quanto e più dei colleghi maschi la necessità di mostrare un tenore di vita più alto delle proprie possibilità, essenziale per ottenere buone commissioni e conservare l’onorabilità sociale. Ha bisogno di vestiti, gioielli, accessori eleganti, una bella casa. Le è necessaria una dote per la figlia Prudenzia, anche lei pittrice. Così scrive.

Scrive a tutti quelli che l’hanno apprezzata, per far riconoscere il giusto compenso per i propri lavori, per ottenere anticipi da investire in modelle e colori, per curare la salute malandata. Usa tutti i registri femminili che conosce: civettuolo, sdegnato, appassionato, ricattatorio. Non ha strumenti per farsi valere se non quello di appellarsi allo spirito di gentiluomo del proprio interlocutore, ricordandogli che è una donna, fragile, bisognosa di protezione.

Autoritratto come allegoria della pittura (Wikimedia Commons, pubblico dominio)

Io fo tanto gran compassione a Vostra Signoria, perché il nome di donna fa star in dubbio finché non si è vista l’opra.

Così scrive a don Antonio Ruffo, da Napoli, il 30 gennaio 1649 (in F. Solinas, Lettere di Artemisia, De Luca, Roma 2011, p.126).

Artemisia è celebrata, tutti i collezionisti vogliono le sue opere, i suoi disegni vengono venduti e copiati, ma non riuscirà mai ad affermarsi economicamente: solo a Napoli, avvalendosi della collaborazione di colleghi maschi per avviare una ben organizzata bottega, otterrà la commissione di tre grandi pale per la cattedrale di Pozzuoli, figurando a fianco dei celebrati Giovanni Lanfranco, Massimo Stanzione etc. (1636).

Ciononostante, non sembra che per gli anni restanti abbia avuto altre commissioni pubbliche di rilievo. La formula dubitativa è d’obbligo: a seguito della mostra tenutasi a Roma, Palazzo Braschi, dal 30 novembre 2016 al 7 maggio 2017, si è verificato che il corpus delle opere di Artemisia Gentileschi degli ultimi due decenni di vita non è del tutto noto, per cui non è impossibile che gli studi futuri riservino sorprese. (Per maggiori approfondimenti si consiglia la lettura del catalogo della mostra e in particolare di N. Spinosa, Artemisia e Napoli, pp. 55-67).

D’altra parte, l’epistolario degli ultimi anni è testimone delle grandi difficoltà in cui Artemisia dovette dibattersi fino all’ultimo; fino alla morte patì la condizione di essere principalmente artista di ritratti e “dipinti da cavalletto”. Insomma, patì il destino di tanti suoi colleghi, aggravato dalla difficoltà di essere una donna che fa un mestiere da uomo. E pochi anni dopo la sua morte era già dimenticata: per molto tempo la maggior parte delle sue opere fu attribuita al padre o, semplicemente, ad anonimo pittore di cerchia caravaggesca.

Nel 1916 il grande storico dell’arte Roberto Longhi scrisse di lei: “L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia la pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità…”. A due secoli e mezzo dalla morte, Artemisia entrava finalmente nella Storia dell’Arte: oggi, a cento anni di distanza dal saggio di Longhi, vanta finalmente una quantità di “sorelle”.

Penelope Filacchione

Storica dell’arte specializzata in tarda antichità e alto medioevo, Penelope Filacchione ha concentrato la propria ricerca attorno alla storia e al significato delle immagini, soprattutto della prima età cristiana: ha al proprio attivo diverse pubblicazioni e partecipazioni a convegni sul tema. Docente di Archeologia e Storia dell’Arte classica e cristiana antica presso l’Università Pontificia Salesiana e docente di Storia dell’Arte presso le Scuole d’Arti e Mestieri di Roma Capitale, si dedica con passione anche alla divulgazione attraverso un pluridecennale lavoro con le associazioni culturali. Negli ultimi anni sta chiudendo il cerchio del suo studio: al suo amore per l’antico si affianca quello per il mondo dell’arte in presa diretta, attraverso la curatela di mostre per artisti contemporanei.

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Questo è il sito di Rita Charbonnier, autrice dei romanzi Figlia del cuore (di prossima uscita per Marcos y Marcos), La sorella di Mozart (Corbaccio 2006, Piemme Bestseller 2011), La strana giornata di Alexandre Dumas e Le due vite di Elsa (Piemme 2009 e 2011). Scopri di più...

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