Le donne e l’arte: non solo Artemisia

Per secoli le artiste sono state escluse con determinazione dal mondo dell’Arte con la A maiuscola

Articolo di Penelope Filacchione

Le donne e l'arte: Judith Leyster, autoritratto
Judith Leyster, Autoritratto

Io so che qualcuno nel tempo conserverà di noi memoria.

Saffo, VII sec. a.C.

Siamo così abituati a pensare che la creatività sia un dono femminile da non ritenere possibile che per secoli le donne siano state escluse dal mondo dell’arte. Interrogarci sul perché di questo fenomeno significa attraversare un lungo periodo della Storia dell’Arte, osservandolo dalla prospettiva della società europea tra il XV e il XIX secolo: l’argomento è vasto, ma possiamo provare a riprendere le fila dei primi duecento anni, da quando cioè le artiste sono state escluse con determinazione dal mondo dell’Arte con la A maiuscola, fino alla riconquista della consapevolezza.

A differenza di quanto si può comunemente credere, le arti applicate sono state a lungo praticate dalle donne, spesso in perfetta intercambiabilità con gli uomini: pittrici, ricamatrici, decoratrici di codici miniati, la “naturale” attenzione delle donne al dettaglio è stata considerata nei secoli una dote che le rendeva adatte a questo tipo di lavori quanto e più dei loro colleghi maschi. Il fatto che di poche si conosca il nome è determinato principalmente dalla loro condizione giuridica: fin dall’antichità le donne erano molto limitate nella possibilità di stipulare contratti, gestire trattative commerciali e riscuotere crediti, quindi la loro presenza va vista in controluce dietro le spalle di un collega maschio, un padre, un marito, un fratello, che risulta quindi essere il titolare del contratto di lavoro.

Inoltre, socialmente ci si aspettava che esse si occupassero più dell’aspetto procreativo che di quello produttivo, intendendo con procreazione non solo l’atto fisico di mettere al mondo dei figli – aspetto comunque produttivo, soprattutto nei ceti bassi, perché i figli costituivano forza lavoro – ma tutta la cura della famiglia: è chiaro come, in queste condizioni, giovani particolarmente versate nelle arti applicate abbandonassero presto il lavoro per dedicarsi principalmente alla famiglia. In caso contrario avrebbero subito la riprovazione sociale.

Andrea del Castagno, Giovanni Boccaccio

Sia la riscoperta del Diritto Romano nelle società tardo medievali e proto rinascimentali, sia il pensiero filosofico aristotelico e della Scolastica hanno influito nella limitazione della capacità giuridica delle donne, quanto e più del pensiero cristiano. Ciononostante, nel Trecento cominciarono a circolare idee diverse sulle donne e sulla loro possibilità di essere un vero alter ego per gli uomini: complice la poetica dell’Amor Cortese e della donna-musa, personaggi come Giovanni Boccaccio iniziarono a scrivere a favore delle qualità sociali e morali delle donne.

Le donne furono escluse definitivamente dalle arti visive tra il Quattrocento e il Cinquecento: di fatto, in tutti i secoli precedenti, un artista non era altro che una particolare categoria di artigiano inserito nel mondo delle corporazioni di mestiere. Quando, con l’Umanesimo, si iniziò a dibattere sulla qualità delle arti, dividendole tra “maggiori” e “minori”, molta parte delle forme artistiche praticate dalle donne fu declassata ad artigianato, fino a essere qualificata come attività domestica.

Così accadde ad esempio all’arte del ricamo: praticata nel medioevo da gruppi specializzati di uomini e donne per la produzione di tessuti e paramenti per le corti e per la Chiesa, fu in breve suddivisa in un ramo maggiore – quello degli uomini e delle tessiture – e un ramo “minore”, domestico, praticato dalle donne ad uso e decoro della famiglia o, al più, come attività di sostentamento per le vedove, alle quali era concesso di vendere i loro prodotti perché in stato di bisogno. La ragione di questo cambiamento va ricercata principalmente nell’introduzione di telai meccanici e apparecchi simili, che si consideravano troppo complicati per essere adoperati dalle donne.



Di fatto, da questo momento il lavoro femminile diventa meno pagato perché considerato meno “qualificato”: l’attività del ricamo è rimasta fino al XIX secolo una delle attività formative delle fanciulle di buona famiglia, praticata tra le mura domestiche assieme all’acquarello, al canto e ai rudimenti musicali, passaggi basilari per preparare le giovani al ruolo di ornamento della società.

La divisione tra arti maggiori e arti minori, codificata definitivamente nel Rinascimento con i trattati di Leon Battista Alberti (1) e del Vasari (2) e con la nascita delle Accademie (3), contribuì a definire il mondo delle arti maggiori come prerogativa dell’universo maschile: tra le ragioni per cui le donne ne erano normalmente escluse si contavano la difficoltà fisica di certe attività e la scarsa cultura. Con il Rinascimento l’aspetto della speculazione intellettuale diventava infatti essenziale nella produzione artistica: tranne qualche caso di nobili fanciulle figlie di genitori particolarmente aperti, la scarsa formazione culturale delle donne impediva loro di leggere il latino, di conoscere direttamente i classici e, di conseguenza, di formarsi un repertorio di immagini in grado di soddisfare le richieste dei committenti. Se pure una donna sapeva leggere, aveva normalmente accesso esclusivamente alla Bibbia e a opere religiose di carattere edificante, mancandole quindi i riferimenti necessari per realizzare le opere più richieste (e ben pagate) dai committenti: i gradi dipinti a tema mitologico o le grandi pale d’altare dalle complesse allegorie.

Plautilla Nelli, busto di giovane donna. Fonte

Ma il punto veramente cruciale era quello della formazione pratica: le fanciulle andavano preservate da ogni contatto con le bassezze del mondo maschile, pena l’impossibilità di trovare un marito e quindi di essere socialmente inserite. Per contro, la formazione ormai “accademica” dal Rinascimento in poi richiedeva non più e solo l’apprendistato in bottega, ma la pratica del disegno dal vero del corpo umano, la conoscenza dell’anatomia maschile, la frequentazione di ambienti promiscui. Per le donne era proibitivo frequentare il cantiere dell’affresco, dove artisti, garzoni e operai operavano a stretto contatto per mesi interi: dato che l’affresco era considerato il punto più alto della pittura è ovvio che le fanciulle fossero escluse a priori da una formazione artistica completa.

Ciononostante, a partire dal Quattrocento proprio in Italia (a Firenze, Bologna, Roma, Venezia, Mantova…) troviamo sempre più spesso delle professioniste dell’arte, riconosciute in qualche caso anche dalle Accademie: nella maggior parte dei casi si tratta di figlie d’arte, educate dal genitore nel chiuso dello studio alla pittura da cavalletto, in primis il ritratto. Tele o tavolette di formato piccolo o medio furono per un centinaio d’anni il principale prodotto di queste valenti artiste: a suor Plautilla Nelli (Firenze 1524 – 1588) lo stesso Vasari riconosceva che avrebbe potuto dipingere “come un uomo” se solo ne avesse ricevuto l’educazione.

La moda del collezionismo borghese, derivata dai paesi fiamminghi, fu una grande occasione per l’affermazione delle donne nel mondo delle arti visive: quando nell’Olanda protestante si iniziarono ad acquistare piccole tele con ritratti e nature morte, oppure a soggetto edificante, ecco che le Catharina Van Hemessen (Anversa 1528-1587), Judith Leyster (Haarlem 1609-1660) e loro consimili trovarono un posto da artiste riconosciute, facendo da apripista per le loro colleghe del sud dell’Europa.

La storiografia artistica guardava comunque sempre con un certo sospetto queste donne: il biografo Malvasia irrideva la dabbenaggine del nobile marito di Lavinia Fontana (Bologna 1652-1614), che aveva consentito alla moglie di proseguire nell’attività artistica anche dopo il matrimonio.

Padre o marito che fosse, la presenza di un uomo restava indispensabile: nonostante nel Seicento fosse sempre più frequente il caso di donne che gestivano autonomamente la dote o il patrimonio di famiglia, la loro libertà non era dovuta a un miglioramento sensibile della capacità giuridica, quanto al fatto che per tranquillità sociale era più conveniente “chiudere un occhio” e lasciar correre piuttosto che sollevare una questione di principio che si faceva sempre più spinosa e controversa. Quando però una donna intraprendeva una attività professionale, era necessario che un uomo le facesse da “spalla” per tutte le questioni amministrative e, soprattutto, per pretendere il rispetto dei contratti.

Marietta Robusti, Autoritratto

Nel caso delle figlie d’arte, il rapporto con i padri-maestri non fu quasi mai facile: Marietta Robusti (Venezia 1554-1590), figlia del grande Tintoretto, non poté mai firmare un dipinto nonostante fosse il principale aiuto del padre. Ottenne dal grande artista un’educazione completa anche nella pittura: il padre la vestiva da maschio per portarla nei cantieri – contava probabilmente che la confondessero con i fratelli – ma quando Filippo II di Spagna e Massimiliano d’Austria la richiesero come ritrattista presso le rispettive corti, il padre la fece rapidamente sposare con un orafo tedesco attivo a Venezia. Lei aveva già ventiquattro anni: dopo la morte del figlioletto di 11 mesi e il fallimento delle sue aspirazioni artistiche, della vita di Marietta all’ombra del padre e del fratello Domenico non sappiamo quasi più nulla fino alla morte avvenuta una decina d’anni dopo.

Elisabetta Sirani (Bologna 1638-1665) e le sue sorelle furono tutte allieve del padre Giovanni Andrea Sirani, pittore e procuratore di Guido Reni a Bologna: in particolare Elisabetta era versata nel ritratto e nell’incisione e, alla malattia del padre, prese le redini della casa-bottega di famiglia dove si formò una piccola scuola passata alla storia come “Accademia delle donne”. Ciononostante, alla sua morte improvvisa a ventisette anni – dovuta probabilmente a una peritonite — si tenne una inchiesta in cui si sospettò di un’allieva per gelosie d’amore, ma soprattutto del padre per gelosia professionale.

Anche Fede Galizia (Milano 1574– 1630) era figlia d’arte e aveva appreso il mestiere dal padre miniaturista e costumista nella Milano della Contro Riforma: specializzata in miniatura, incisione e ritratto, ebbe l’onore più unico che raro per una donna di ricevere alcune commissioni per le pale d’altare delle chiese milanesi, soprattutto grazie all’attività promozionale del padre che vendeva il lavoro della figliola come un vero prodigio. Per accrescere la risonanza dell’eccezionale talento della fanciulla, il padre le toglieva quattro anni, vendendo i suoi lavori come quelli di una dodicenne quando ne aveva sedici. Ciononostante, la sua fama era dovuta alla natura morta, genere che esplorò e arricchì in maniera eccezionale fino a farne una moda tipica del nord Italia: anche questo, ovviamente, un genere da cavalletto al quale lavorare al chiuso delle mura domestiche. Morì zitella e senza figli.

Van Dyck, schizzo-ritratto di Sofonisba

Eccezionale in questo panorama la figura di Sofonisba Anguissola (Cremona 1535-1625), figlia di un padre illuminato – un nobile amante delle arti — che sottopose i disegni della bambina al giudizio di Michelangelo: Vasari la definì un “miracolo di Natura” e fu la principale ritrattista della corte spagnola per almeno un decennio. Alla corte di Spagna i pittori avevano una rendita fissa, possibilità non prevista per una donna, così Sofonisba fu assunta con un contratto da “dama di corte” stipulato tra la Corona di Spagna e i Duchi d’Alba e di Sessa.

Ormai novantenne, ebbe l’onore di una visita di Van Dyck, che arrivò fino in Sicilia per incontrarla: il pittore era considerato in genere presuntuoso e sprezzante verso i colleghi, ma negli appunti presi attorno allo schizzo del ritratto di Sofonisba dimostra di essersi rivolto a lei come a una veneranda maestra. Scrisse che ne ricevette molti buoni consigli e che, nonostante l’età avanzata e non potesse più dipingere perché stava perdendo la vista, la sua mano era ancora ferma e la mente lucidissima. Sofonisba prese marito due volte per avere le necessarie tutele, ma morì senza figli.

Ovviamente, il discorso non può concludersi senza Artemisia Gentileschi… che incontreremo alla prossima puntata.

Penelope Filacchione

Storica dell’arte specializzata in tarda antichità e alto medioevo, Penelope Filacchione ha concentrato la propria ricerca attorno alla storia e al significato delle immagini, soprattutto della prima età cristiana: ha al proprio attivo diverse pubblicazioni e partecipazioni a convegni sul tema. Docente di Archeologia e Storia dell’Arte classica e cristiana antica presso l’Università Pontificia Salesiana e docente di Storia dell’Arte presso le Scuole d’Arti e Mestieri di Roma Capitale, si dedica con passione anche alla divulgazione attraverso un pluridecennale lavoro con le associazioni culturali. Negli ultimi anni sta chiudendo il cerchio del suo studio: al suo amore per l’antico si affianca quello per il mondo dell’arte in presa diretta, attraverso la curatela di mostre per artisti contemporanei.

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Questo è il sito di Rita Charbonnier, autrice dei romanzi Figlia del cuore (di prossima uscita per Marcos y Marcos), La sorella di Mozart (Corbaccio 2006, Piemme Bestseller 2011), La strana giornata di Alexandre Dumas e Le due vite di Elsa (Piemme 2009 e 2011). Scopri di più...

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