Laura Pigozzi, psicoanalista, ha scritto libri che si occupano da un lato di dinamiche familiari e ruoli femminili, dall’altro di vocalità. È infatti anche cantante e formatrice specializzata nell’aiuto ai cantanti in crisi con la propria voce. Ha pubblicato A nuda voce. Vocalità, inconscio, sessualità (Poiesis), Chi è la piú cattiva del reame? Figlie, madri e matrigne nelle nuove famiglie (Et al./ Edizioni, anche tradotto in francese), Voci smarrite. Arte e legame sociale contro il dominio dell’anestesia (Et al./ Edizioni). Cura il blog Rapsodia e ha fondato il Non Coro, laboratorio di sperimentazione e creatività vocale. Lavora tra Milano e la provincia di Verona.
Il suo libro più recente, Mio figlio mi adora. Figli in ostaggio e genitori modello è uscito per i tipi di Nottetempo poco più di un anno fa, ma io l’ho scoperto di recente. L’avevo acquistato immaginando di trovarvi tutt’altro, per poi lasciarlo giacere alcuni mesi nello scaffale-limbo dei testi che attendono le mie attenzioni. Quando finalmente l’ho letto, l’ho trovato prezioso.
Mai come oggi, recita la quarta di copertina, i modelli familiari sembrano essersi ampliati e dinamizzati, mettendo in questione il principio stesso della famiglia “naturale” e mostrandone il carattere ideologico. Già questa è un’affermazione non da poco; l’idea che una famiglia non sia necessariamente basata sulla consanguineità, e che la consanguineità non crei necessariamente una famiglia, non è accettata da tutti. Tant’è che la stessa autrice puntualizza come l’opposizione allo ius soli derivi da un’ipervalutazione del legame di sangue: quei ragazzi sono nati e sono stati cresciuti in Italia, ma non da italiani, quindi “non possono essere italiani” — dicono alcuni. E questo è solo uno dei numerosi legami con il concreto, con l’attuale, all’interno di un libro che l’autrice non esita a definire politico.
È un libro rivolto principalmente alle madri, sia a quelle che definisco Madri in maiuscolo, cioè quelle che si sentono votate totalmente alla maternità, sia quelle madri (in minuscolo) che si sentono estranee alla vocazione del sacrificio infinito verso il proprio bambino e che sono, in questo tempo, quelle meno valorizzate. Ma principalmente, mi piacerebbe che questo libro venisse letto dai figli di quelle Madri maiuscole, in modo che possano reperire qualche spunto di riflessione sulla loro esperienza — che non ha eguali nel passato in termini di dedizione materna — e sui relativi costi psichici che hanno da sopportare nella loro esistenza.
Si tratta di osservazioni prevalentemente cliniche che riguardano le persone che vengono a raccontarmi le loro vicende, ma si tratta anche di osservazioni dirette sulla vita di persone a me care, ragazzi perlopiù, che percepisco come annichiliti dalle esuberanti prestazioni materne contemporanee e dalle relative richieste.
Effettivamente i figli ne sono molto imbarazzati, perlomeno quelli con cui ho contatto. Esibire l’amore per un figlio non ce lo fa amare di più, né meglio. Forse dietro queste accorate dichiarazioni pubbliche si cela una insicurezza circa l’amore che il figlio prova per il genitore. L’amore filiale è ambivalente — e ciò è un bene. È importante che contenga — mischiato all’amore — una quota d’odio, quella quota che permetterà al figlio di distinguersi dall’antenato. Quella quota di cui molti genitori non vogliono sapere nulla.
Dietro la svalutazione del linguaggio credo si celi una forte ideologia della Natura, una illusione che la Natura sia salvifica, che il sangue conti più della parola. Non è così. La parola è il vero liquido amniotico in cui nasciamo. Lì, nelle prime parole dei genitori, è contenuto il nostro destino. Un destino a cui possiamo sottometterci o che possiamo rettificare.

Molto tempo fa andai in supervisione da una analista che insegnava sociologia in una nota università e che aveva pubblicato un libro in cui affermava l’ambivalenza come risorsa. La scelsi per questo motivo ma, con mia grande sorpresa, lei mi chiese di scegliere: o la cantante o l’analista. Questa sua risposta mi turbò profondamente e l’abbandonai, ma oggi le sono grata perché, grazie al suo improprio rilievo, ho lavorato a lungo per dimostrare in che senso la voce coincida essenzialmente con l’inconscio. Che io sappia ci sono, perlomeno nel mondo lacaniano che è quello che frequento, alcuni analisti che cantano ma non ne conosco alcuno che insegni anche questa disciplina. L’avere a che fare con il corpo dello studente, sotto forma della sua voce, apre un campo di riflessioni preziosissime per la psicoanalisi, e che ho raccolto nel libro A nuda voce. Posso dire che sono grata ai miei studenti di canto per avermi insegnato ad avere un orecchio ancora più fine nell’ascolto dei pazienti.