Un articolo del 1931 nel quale il poliedrico autore e interprete di cinema e teatro (1885-1957) parla di sé in modo singolare

Pubblico un altro raro scritto di un personaggio che appartiene alla storia del teatro (dopo quelli di Pirandello, Marta Abba e Paola Borboni). Oggi si tratta di Sacha Guitry, poliedrica figura di drammaturgo, attore, sceneggiatore e regista francese, attivo nella prima metà del Novecento (Wikipedia). Come negli altri casi, l’articolo è tratto dalla rivista di teatro Il Dramma e per la precisione dal numero del 1° agosto 1931. Si tratta di un’autobiografia piuttosto singolare. Le immagini provengono da gallica.bnf.fr, Bibliothèque nationale de France; la prima (qui sopra) è una vignetta che ritrae Sacha Guitry con il fratello Jean, a sua volta attore e giornalista.
Panorama della mia vita, di Sacha Guitry
Da «Il Dramma» — 1° agosto 1931
Il 21 febbraio del 1885 venni al mondo. La cosa accadde un po’ prima del pranzo (avevo già fame, forse!) a Perspective Neraski, a Saint Petersbourg. Dal 1885 al 1890 ho giocato sul tappeto del salotto durante l’inverno, e sull’erba d’estate. Dal 1890 al 1901 ho tentato di studiare. Ciò non mi divertiva. Vi ho rinunciato, d’altronde, ben presto.
Nel 1902, un mattino, ho fatto il mio primo lavoro. Era in un atto, in versi e si intitolava: Il paggio. Le rappresentazioni ed il piccolo successo del «Paggio» non mi avevano esageratamente inorgoglito e a quell’epoca non ho pensato che potevo avere una vocazione. Mi son detto semplicemente: «Ho fatto un piccolo lavoro. l’hanno dato, tanto meglio… ora facciamo qualche cosa d’altro». E mi sono messo a disegnare, per vedere che cosa ne sarebbe uscito. Il mio primo lavoro è apparso sulla Presse diretta da Gustavo Guiches: me lo hanno pagato cinque lire.
Lo stesso anno tentai l’arte drammatica. Non avevo il fuoco sacro. Del resto, avevo finito per credere all’opinione che avevano su di me: non avrei mai fatto niente di serio. Ero destinato a tentare tutto e a vivere miseramente in un angolo remoto della riva sinistra.

Dunque, una domenica mattina debuttai a Versailles nell’«Ernani». Non facevo la parte di Ernani, no. Ero un cospiratore nel terzo atto, un soldato nel quarto, e un signore nell’ultimo. Me la sono cavata senza infamia da questa triplice parte; ma questa rappresentazione mancò poco che si chiudesse in maniera scandalosa.
Alcuni amici ai quali avevo annunciato il mio debutto, erano venuti da Parigi in una compagnia allegra e avevano invaso la prima fila della balconata. Essi attendevano il mio ingresso. Questo fu salutato da un’ovazione che non si può descrivere. Ogni mio gesto era seguito da uno scroscio d’applausi e quando, beffando e torturato dal desiderio di ridere, declamai un paio di versi, l’entusiasmo dei miei amici non conobbe più limiti. Furono grida, urli di ammirazione, che rassomigliavano a quelli delle bestie feroci. Il direttore del teatro rifiutò di pagarmi e giurò che non avrei messo più piede nel suo teatro. Egli ha mantenuto la parola. Non ho recitato più a Versailles.
Nel 1903 non ho lavorato. Sono andato sovente alle corse. Ho imparato il poker ed ho frequentato le bettole, di notte, con una assiduità degna di elogi. Nel 1904 ho fatto tutto ciò che avevo fatto nel 1903, ma con meno piacere. Nel 1905 ho avuto bisogno di denaro e mi son fatto scritturare sotto il nome di Larcey al Casino di Saint Valéry en Caux. Avevo 300 franchi il mese ed ero «primo attore giovane, comico all’occorrenza». Alla seconda rappresentazione facevo Morard, nel «Deputato di Bombignac». Mi hanno talmente fischiato, che l’indomani, prima di mezzogiorno, ero spietatamente protestato dalla direzione.
Allora, disgustato del mestiere di attore, incoraggiato da un amico, scrissi «Nono». Fu rappresentato nel mese di dicembre, a Parigi, da Bianca Toutain, Dubosc e Boucher. A nessuno rincrescerà che «Nono» costituisca per me una data. Nel 1906, al teatro Antoine, si dà «Chez les Zoaques». Lo si dà per tre mesi. Poi entro al «Gil Blas», ove pubblico degli articoli e dei disegni. Faccio anche un romanzo, I. W. Bloompott, che i direttori non mi hanno mai lasciato finire. Io stesso non ne ho conosciuto la fine.

Réjane mi ordina di scrivere qualche cosa per il suo teatro che stanno costruendo. Figuratevi la mia gioia! Gémier mi richiede un’altra opera. Povel mi annuncia che riprenderà nella primavera «Nono» al Vaudeville. Tutto va bene. Tutto va bene. Non c’è che lavorare. Lavoro. Comincio «La clef» (l’ho limata per un anno). Nel frattempo, faccio rappresentare Le Mari qui faillit tout gâter all’«Odéon», Le Kwtz al «Capucines», un adattamento delle Nuvole di Aristofane alle «Arti» e Un étrange point d’honneur al «Teatro Imperiale».
Nel 1907 «La clef», al «Teatro Réjane», si dà nove volte. Aggiungerò che nove volte sono troppe: la metà della sala fischia, l’altra metà è vuota. Nessuno può escludere che, per me, La clef rappresenti una data.
Durante l’estate, il 24 agosto preciso, mi sposo. Si sono dette cose molto inesatte sul mio matrimonio. Eppure, mio Dio, nessun matrimonio fu più semplice del mio. L’avvenimento ebbe luogo nella mia casa, nel mio giardino, a Honfleur, perché avevo ottenuto l’autorizzazione di non andare in municipio. Si è detto che ero in pigiama verde e rosa. Che pazzia! Ero semplicemente in pigiama bianco e blu. […]
Non mi lagno ma non voglio che si dica di me che sono un pigro. Ma, direte voi, perché non riposate di tanto in tanto? Per due ragioni, signori; prima perché non posso, e poi perché adoro la vita intensa. Quando mi riposo, sono stanco. Non lo sono mai quando lavoro.
Ciò che amo all’infuori del mio lavoro?
Tutto. I miei amici, la pittura (parlo della pittura degli altri), il tabacco, la lettura, gli animali, il cibo, l’istante che vivo, quello vissuto e quello che vivrò, il giardiniere che passa, l’inchiostro di Cina, perché è molto nero, la neve perché è candidissima, voi perché mi leggete e, sopra ogni cosa, la campagna.
Perché rappresento delle commedie? Perché le scrivo.
Come disegno? Sulla carta. Che cosa? Non avendo né il talento delizioso di Cappiello, né la virtuosità magistrale di Cem, e non avendo mai avuto l’intenzione di farne la mia carriera, ho semplicemente tentato di utilizzare in disegno le qualità che i miei amici hanno ben voluto riconoscermi nella letteratura. E sono delle memorie che io disegno. È la sola maniera, per me, di farle con profitto. Non potei far rivivere a mio piacimento il volto amato di Jules Renard che dopo la sua morte, un giorno in cui avevo bisogno di rivederlo.
Pensate che una fotografia avrebbe potuto rendermi questo servizio? Non credo. In fotografia si è immobili. Non si deve essere né di profilo, né di fronte: si deve esserci tutto intero, in pochi tratti, in un minimo di linee e di punti. Questo modo speciale di procedere, questa necessità in cui mi trovo qualche volta d’attendere la morte d’un uomo per riuscire nella sua effigie, mi toglie il piacere di fare delle caricature per quaranta soldi, sulla terrazza dei caffè. Non si può fare tutto.
Come recito? Senza metodo, senza maniera, senza gusto, senza abitudini, con facilità, con piacere, per piacere, per il mio piacere, per il piacere del pubblico.
Ciò che preferisco? Tenere delle conferenze. Perché? Perché sono sicuro che dopo due minuti tutti dormono.
Ciò che non amo? I critici.
Sacha Guitry