Articolo d’epoca nel quale un giovane Walt Disney racconta la nascita del suo personaggio più amato

Su un’antica rivista (1936) ho trovato uno scritto di Walt Disney su Topolino, che riporta in calce la seguente irresistibile nota dell’editore: «Questo articolo ci è stato concesso cortesemente dalla bella “Rivista del Medico” diretta da Mario Buzzichini, e che la Casa di prodotti medicinali Maestretti di Milano offre in omaggio. Non si vende perciò al pubblico». Non sono certa che la gratuità della pubblicazione (ancorché effettuata a scopi divulgativi e informativi e io non vi lucri) sia tuttora valida, per cui sono disposta a rimuovere immediatamente questa pagina dal sito qualora qualcuno ritenga che sia lesiva dei suoi diritti e me lo comunichi.
Articolo di Walt Disney
Da “Il Dramma” — 1° Ottobre 1936
Non occorre dire che io sono fiero di Topolino. Chi non lo sarebbe? Egli è il più modesto e il più caro degli eroi; modesto, vi assicuro, perché io lo ricordo quando abitava con me in una soffitta.
Era il tempo della mia giovinezza (anche ora che ho 33 anni qualcuno si ostina a dirmi che sono giovane; adulatori! Come quelli che dicono e scrivono che assomiglio a William Powell…). Il tempo della mia giovinezza, dicevo, e della mia povertà. I topi passavano piuttosto numerosi fra quelle pareti. Poi uno si fermò — si fermò, intendo dire, nella mia mente: lui, Mickey.

È noto ormai come il mio piccolo e spensierato rosicante, sia la copia fedele di un topino che in quei tempi allietava le mie nere ore di soffitta; ed è anche noto come dalla soffitta ai cinema di Hollywood la strada fu lunga e terribilmente difficile.
Un giorno del 19…, un povero giovanotto scendeva da un treno a Los Angeles con pochissimi quattrini in tasca, una fantasia di topi in mente e molte illusioni. Quel giovanotto dalla valigia da emigrante ero io. Con me era mio fratello Roy. Non avevamo denaro sufficiente per affittare uno studio: ci installammo in un piccolo magazzino, e lì sviluppammo la nostra idea, che era di fare dei films di disegni animati. La protagonista del primo film, non tutto a disegni, fu una bambina vera che giocava con animali di cartone e mangiava cibo di cartone.
Io scrivevo lo scenario, facevo i disegni e montavo le scene. Alla sera rincasavo stanco morto, e sporco come un muratore. Oltre che dirigere i films facevo qualsiasi altra cosa ci fosse da fare. Riprendevo come potevo le scene nei vicoli o nelle aree in vendita per costruzioni edilizie. Non avevo mai usato una lampada Kleig. Mio fratello Roy era il fotografo della ditta. Preferisco parlare di lui in altra occasione: come fotografo non è giudicabile. Io con un occhio seguivo la scena e con l’altro cercavo di impedire i disastri di Roy.
Furono duri tempi per noi; ciò nonostante non eravamo infelici; e poi, ben presto, i disegni animati con Alice (appunto «Alice in Cartoonland» si chiamavano quei primi films) furono finiti ed ebbero qualche successo.

Intanto l’idea di un animale, come protagonista di films, si era concreata in me. Qualcuno suggerì un coniglio e lo chiamammo Osvald. Per tre anni lavorai come un pazzo dietro a Osvald. Lasciai il vecchio magazzino e mi stabilii in un vero laboratorio. Assunsi del personale pur continuando io stesso a disegnare, a scrivere e a lavorare. Ma il mio cuore era altrove. Osvald non aveva anima. Io avevo bisogno di denaro ed il mio socio, che si occupava dello sfruttamento dei films, non ci sentiva da quell’orecchio. Passai dei veri guai. Il personale, a ragione, voleva essere pagato di più; il lavoro era gravoso e spossante. Che fare? Partii per New York in cerca di quattrini e di consigli; ma trovai soltanto consigli. I tempi erano cattivi! (Pensate da quanti anni dura questo refrain!).
Ritornai a casa senza soldi, stanco; ma felice dentro di me, perché proprio durante quel viaggio il mio topolino pareva avere preso forma concreta nella mia testa: Mickey Mouse, saltellante e pieno di allegria, si avanzava furbescamente verso di me. Fui completamente sommerso da questa idea. Le ruote del treno giravano su questo motivo «ciag, ciag-Mouse; ciag, ciag-Mouse…» e il fischio zufolava stridendo: «M-m-m-owa-ouse».

Quando il treno giunse nel Middlewest io avevo definitivamente vestito il topino del mio sogno con un paio di pantaloncini di velluto rosso ornati di due grossi bottoni di madreperla (così come doveva poi danzare sulle pareti della camera della Principessa Elisabetta in un castello inglese); avevo composto il primo scenario e tutto era chiaro in me.
Nel mio garage privato, mio fratello, un gruppo di fedeli lavoratori ed io, ci gettammo nell’impresa; e finalmente, si diede vita al primo cartone animato di Mickey Mouse. Veramente, il suo nome non era ancora Mickey: si chiamava Mortimer. Con quel nome il topolino partì per il mondo; ma il pubblico che lo attendeva al cinematografo, era in quel momento distratto da un nuovo prodigio: proprio in quel tempo (eravamo nel 1927) Al Jolson cantava il suo «Sunny boy» dal primo schermo sonoro.
Al Jolson cantava e il povero Mickey non poteva neppure squittire! Era un grosso «handicap»: s’imponeva subito un serio problema: mettere fiato nei piccoli polmoni di Mortimer. Invano cercai in tutta Hollywood qualcuno che volesse aiutarmi nella possibilità di dare una voce al mio topo; ancora una volta dovetti prendere il treno per New York. Laggiù, dopo settimane di faticose trattative riuscii alfine a costituire una società che aveva il preciso compito di provvedere alla sonorizzazione dei miei films; ma nessuno dei soci credo fosse convinto della possibilità avvenire del mio topolino.
Venne alfine il giorno, un bellissimo giorno, in cui riuscii a piazzare Mickey al «Colony Theatre» di New York. Fu un successo strepitoso. «Variety» ne scrisse mirabilia; molti quotidiani lo lodarono senza riserve. Per la prima volta un film a disegni animati, allora considerato una sottospecie della produzione cinematografica, veniva portato alle stelle.
Il piccolo Mickey mi ha dato la possibilità di sedermi in uno di quei santuari d’affari ai quali si arriva dopo aver salito migliaia di scalini coperti di pesanti stuoie e attraverso teorie di usci. Voi m’intendete. Là, oggi io seggo dietro una scrivania massiccia e scolpita; ma, ricordando sempre il Walt Disney che or sono pochi anni era un povero ragazzo in cerca di aiuto, non perdo la testa. Ho fatto Mickey, è vero; ma Mickey ha fatto me.
Lui è il capostipite della nostra grande famiglia; con lui fu fondata la nostra industria. Da «Mickey Mouse» alle «Silly Simphonies», dal «bianco e nero» al «Technicolor» l’azienda si è ingrandita, gli «studios» si sono arricchiti di apparati tecnici meravigliosi; ma io ho cercato di semplificare il più possibile l’organizzazione della nostra vita di lavoro.
Chi viene a Hollywood può facilmente riconoscere il mio quartiere generale, che, di fronte ad un ombroso viale, vicino alla mia casa, occupa una modesta area di terreno. Non è uno di quei favolosi impianti grandi come città, con ettari di terreno ricoperti di falsi palazzi veneziani, centinaia di uffici, e di camerini per artisti. Però non manca nulla. Io e mio fratello Roy possediamo ognuno un ufficio luminoso: questi due studi dànno in un «patio» verde al quale convergono tutti gli altri uffici.

C’è anche un piccolo teatro che serve alternativamente per studio sonoro e camera di proiezione; una piccola libreria ben fornita. Tutto questo — compreso i piccoli comforts moderni, riscaldamento d’inverno e ventilazione d’estate — mi è costato soltanto 25.000 dollari; come vedete una cifra modesta.
Mio fratello Roy è ora il mio amministratore e fa l’amministratore molto meglio di quanto non facesse il fotografo. Siamo tutti e due subordinati di Mickey: il topolino è il maggior personaggio della nostra azienda; ed è trattato riverentemente da tutti. Dozzine di artisti lavorano diligentemente per lui: musicisti compongono, provano e riprovano incessantemente; elettricisti, tappezzieri, autisti, scrittori, pittori e dattilografe, tutti sono a sua disposizione. La sua piccola automobile è in un garage in miniatura, sulla porta del quale è scritto a grossi caratteri: «Mickey». Vicino a questo, in un garage consimile è scritto: «Minnie», la prima donna di Mickey e la sua indivisibile compagna. Un professore di araldica ha anche disegnato per Mickey un blasone che si può vedere nel salone delle riunioni.
In questo salone, dopo aver preparato lo «scenario», io riunisco lo stato maggiore per la «gag conference» ossia la conferenza sulle «trovate», che può durare due o tre giorni e dove ogni mio collaboratore apporta le proprie idee, i propri consigli e il proprio estro. Ogni «gag» deve piacere a tutti. Ci scambiamo i nostri pareri e soltanto quando tutte le «gags» sono sistemate s’inizia la lavorazione del film.

Non sempre un cartone nasce da un’idea mia; oggi può essere quella di uno scrittore, domani di un direttore oppure della telefonista; tutte le idee si accentrano sul mio scrittoio, e il giorno della «gag conference» vengono esaminate e discusse.
Quando lo «scenario» ideale è stato approvato viene passato agli scrittori. Si dice «scrittori», ma non è la parola esatta; perché, sebbene lavorino con carta e matita, essi non scrivono quasi mai. La loro funzione è di illustrare uno «scenario» con dei tentativi di disegno, degli schizzi a matita dei capisaldi del film, dai quali gli animatori produrranno il nuovo disegno animato. Ad un soggetto lavorano contemporaneamente in due o anche in tre e il loro lavoro si svolge sopra una grande asse di legno che copre una parete del loro ufficio. Su questa tavola attaccano i loro disegni; di modo che, quando l’abbozzo completo dello «scenario»deve essere approvato da me, esso riassume l’intiero film in un solo pannello.
Per fare un film di Mickey, che dura otto minuti di proiezione sullo schermo, ci vogliono cinquanta uomini; cinquanta uomini soltanto a disegnare, divisi in tre categorie: animatori, apprendisti e inchiostratori; e per la lavorazione completa duecento persone che lavorino per lui esattamente due settimane. Se un uomo volesse fare da solo uno di questi film impiegherebbe quasi due anni. Gli animatori disegnano su carta velina. Per uno dei soliti films ci vogliono dai diecimila ai quindicimila disegni e dai venti ai trenta fondali. Alcuni di questi disegni consistono soltanto — per esempio — di una mano o di un piede, che più tardi sovrapposti ad un altro disegno completeranno la scena.
Gli animatori lavorano sopra una lastra di vetro illuminata dal disotto. Questo sistema permette ad ogni artista di seguire l’azione del disegno attraverso parecchi strati di carta. Supponiamo che si debba fare una scena in cui Mickey cammina: un bozzetto che lo fa vedere all’inizio dell’azione, uno alla fine: compito dell’animatore è di raccordare (diciamo) questi due punti dell’azione a mezzo di disegni supplementari. Gli apprendisti invece sono addetti alle barbe, alle code, ai fiocchi di neve, ecc, ecc. In altro reparto diecine di ragazze ricalcano i disegni in inchiostro di china, sulla celluloide. Dopo questi calchi i disegni vanno agli «inchiostratori» che li tingono di bianco, di nero e di grigio. Dopodiché i disegni sono pronti e passano alla stanza fotografica; vengono distesi sopra una tavola e fotografati dall’alto. Quando la presa è finita si stampa il saggio.
Fino a questo momento però il film è muto. Nel frattempo la orchestra ha studiato sulla carta di produzione con perfezione matematica l’arrangiamento musicale, e lo ha inciso per la sincronizzazione. La colonna sonora ha un «mixage» di tre rumori, e cioè: il parlato, che deve impercettibilmente precedere i disegni; i rumori di effetto e la musica che devono essere simultanei all’azione. I musicisti e coloro che fanno i rumori, vengono muniti di una cuffia ricevente a cui il «metronomi» trasmette la musica e il tempo richiesto dal diagramma: ad un ventiquattresimo di secondo. I disegni vengono numerati secondo le scene e i gruppi; e ogni artista riceve un foglio di carta che indica un certo numero di movimenti e un certo numero di battute musicali.
Si procede in questo modo alla sincronizzazione del film che dopo verrà attentamente riveduta dal correttore dei suoni.
E i rumori? Cose meravigliose e incredibili, da Mille e una notte! Volete sapere come otteniamo il rombo dell’aeroplano? Col trombone. Tamburellando con le dita sopra un cappello duro otteniamo quello del motoscafo; ed il digrignare delle mascelle di un gigante che mangia un pezzo di sedano è reso sfregando con due dita un po’ di sabbia nel palmo della mano.

Alla voce di Mickey provvedo io personalmente fin dal giorno che il mio topo è venuto alla luce.
Quando uno di questi films è pronto per essere lanciato nel mondo, mio fratello Roy, feroce amministratore, s’avanza coi libri della contabilità. Il costo della pellicola si aggira sempre, press’a poco, dalle tre alle quattrocentomila lire.
Mickey è conosciuto in ottantotto paesi; e per ora è tradotto soltanto in due lingue: francese e spagnolo. Presto lo sarà anche in italiano. Egli in italiano si chiama: «Topolino»; in francese «Michel Souris»; in tedesco «Michael Maus»; in spagnolo «Miguel Ratoncito». Riceve da tutte le parti del mondo circa ottocento mila lettere all’anno; e il re Giorgio d’Inghilterra quando ordina i suoi programmi privati vuole sempre un filmdi Mickey. (Si racconta perfino che un giorno la regina Mary d’Inghilterra, per vedere una pellicola di Mickey, arrivasse in ritardo ad un tè). A tutti questi onori Mickey ha da aggiungere quello recentissimo di essere stato ammesso al celebre museo londinese di Madame Tussaud, accanto ai personaggi più illustri della storia.
[…]
Con le mie bestie sto molto bene. Esse non mi danno affatto le preoccupazioni che i divi procurano ai loro produttori. Una volta soltanto ebbi un incidente con la censura. I severi «catoni» avevano trovato che le mammelle di Clarabella, la mucca amica di Topolino, erano troppo in vista. Pensate dove va a cacciarsi il buon costume. In ogni modo rimediai subito mettendole un grembialino.
Anche coi miei collaboratori sono in perfetto accordo; siamo amici, lavoriamo insieme da anni, senza alcuna apparente suddivisione gerarchica; e se essi mi chiamassero mai inversamente che «Walt», sarebbe per me un vero dolore.
Ho già iniziato la lavorazione di un film a lungo metraggio: «Little Snow-White» di Grimm, per portare a termine il quale mi occorrerà almeno un anno e mezzo di tempo. Non è poco, mi pare. Saranno necessari più di 100.000 disegni; soltanto per fotografarlo occorreranno 1250 ore di lavoro; e costerà non meno di 25.000 dollari.
Poi tornerò a Topolino, a cui, come ognun sa, penso di dare i colori. Non vedo l’ora. Ho detto prima che sono amico di tutte le mie bestie; ma l’amicizia più travolgente naturalmente è quella che lega me e Mickey. Io ho cercato di fare di lui una cosa viva, divertente e simpatica; ed egli in compenso, ripagandomi ad usura, mi ha dato per primo denaro, gioia, soddisfazioni; una casa, un piccolo bar nascosto da un pannello di legno, un grosso scrittoio scolpito; e duecentoquarantun pullover. Tutti azzurri.
Walt Disney