Intervista che esplora il fotoromanzo dal punto di vista di chi lo crea, ideando le storie e sceneggiandole: Francesca Giombini
Per chi non lo sapesse, i fotoromanzi sono storie illustrate composte da fotografie e testi scritti, pubblicate a puntate su riviste specializzate e non. Si tratta di un’invenzione tutta italiana, risalente al lontanissimo 1947 e poi esportata nel mondo: fotonovelas in spagnolo, roman-photos in francese… allo straordinario e durevole successo di questa forma di racconto a puntate fa da contraltare, tuttavia, una generale svalutazione da parte dell’opinione pubblica e un disinteresse quasi totale da parte degli studiosi.

Eppure si tratta di un fenomeno di rilievo nella storia della cultura italiana. Inoltre, come spesso accade, si confonde il messaggio con il messaggero (ne ho parlato, tempo fa, a proposito della soap opera): il fotoromanzo non è di per sé “roba da donnicciole”. È un genere di racconto a puntate. La storia che vi viene veicolata può essere “da donnicciole” oppure no.
L’amica Antonella Grassi, che ringrazio, mi segnala un’intervista interessante sull’argomento: vi si esplora il fotoromanzo dal punto di vista di chi lo crea, ideando le storie e sceneggiandole. “Il fotoromanzo è figlio del cinema e fratello del fumetto” dichiara l’intervistata, Francesca Giombini, autrice di circa trecentoottanta sceneggiature di fotoromanzi pubblicati in Italia e in Francia. L’autrice dell’intervista è Paola Bonifazio, professoressa associata di italiano all’Università del Texas ad Austin (USA), i cui interessi di ricerca si concentrano sul cinema italiano, gli studi di genere e le teorie femministe e postfemministe.
L’intervista è tratta dall’ultimo numero di gender / sexuality / italy — rivista online annuale che pubblica ricerche sulle identità di genere e sui modi in cui esse si intersecano con la politica, la cultura e la società italiane.
PAOLA BONIFAZIO: Come hai deciso di dedicarti al genere del fotoromanzo? Sei partita da altre esperienze nel campo creativo e quali di preciso (scrittura, fotografia)? Avevi un rapporto con il genere come lettrice o ci sei arrivata attraverso un altro percorso?
FRANCESCA GIOMBINI: Ho iniziato a scrivere sceneggiature di fotoromanzi per puro caso nel 1992, mi ero laureata da poco al DAMS di Bologna in Storia del Cinema e abitavo a Roma. Le Edizioni Cioè cercavano sceneggiatori per le tante riviste per adolescenti che pubblicavano, alla prima storia che ho presentato mi hanno presa. All’inizio mi sembrava un ripiego rispetto al cinema, poi nell’ambiente ho conosciuto dei veri, grandi professionisti che mi hanno fatto amare il linguaggio del racconto fotografico, mi hanno insegnato il “mestiere.” In seguito ho lavorato molto per l’editoria, scrivendo storie, racconti, fumetti, e anche per l’animazione con circa ottanta cartoni animati. A tutt’oggi ho scritto circa trecentottanta fotoromanzi. Attualmente in Italia lavoro per Grand Hotel, una rivista storica, esiste dal 1946.
Devo dire che da bambina sono stata una grande lettrice di fotoromanzi, praticamente ho iniziato a leggere con i fumetti e i fotoromanzi, ma ero appassionata di tutto, amavo le storie. Guardavo tutti i film che passavano in RAI (quando ero piccola esistevano solo RAI 1 e RAI 2, e il lunedì sera il primo canale mandava in onda puntualmente un film). Negli anni settanta abitavo in un piccolo paese marchigiano, Serra de’ Conti. Erano anni in cui i fotoromanzi vendevano cifre astronomiche. Quelle storie d’amore per un pubblico femminile avevano trame semplici, comprensibili da tutti. A sei anni leggere fotoromanzi rappresentava per me anche una forma di trasgressione perché vedevo gli adulti che si baciavano, cosa che nella vita di tutti i giorni non succedeva mai. La società era molto perbenista e formale. Comunque quel genere di fotoromanzi era letto anche da molti ragazzi, dagli uomini, così come io leggevo Skorpio e Diabolik che potevano sembrare fumetti per un pubblico maschile. […]
PB: Come ha influenzato la tua carriera di regista e ideatrice di fotoromanzi la critica a questo tipo di pubblicazioni (anche feroce, da un lato, e condiscendente, dall’altro)?
FG: Le critiche non mi hanno mai spaventata. All’inizio io stessa ero diffidente nei confronti del fotoromanzo, così come del fumetto. In Italia la critica ufficiale degli anni settanta faceva una specie di classifica tra le arti degne e quelle meno degne di considerazione. Ricordo un’antologia delle scuole medie che metteva al primo posto la poesia, poi la prosa, il teatro, il cinema… via via finendo con il fumetto. Il fotoromanzo veniva descritto come una roba da dementi, un genere melenso, fatto di trame banali per un pubblico semianalfabeta. Io stessa ho smesso di leggere fumetti e fotoromanzi intorno ai quindici anni, per darmi un tono da intellettuale leggevo solo libri suggeriti dai critici delle riviste di moda, ma alla fine quella narrativa mi deludeva. Invece al cinema continuavo a guardare di tutto, sia i film di cassetta che quelli cosiddetti impegnati. Sono molto grata ad alcuni critici cinematografici illuminati che col tempo sono riusciti a farmi apprezzare le cose per il loro valore.
D’altra parte il fotoromanzo viene definito anche “film statico.” È nato con Cesare Zavattini, uno dei padri del Cinema Neorealista, e Damiano Damiani, uno dei registi più “impegnati” d’Italia. Penso che ogni espressione può essere valida. Sono tutti linguaggi, bisogna vedere come si usano. Oggi più che mai sono convinta delle enormi potenzialità del linguaggio del racconto fotografico. Le storie che ho realizzato per la Francia le ho volute fortemente, e ho scelto il fotografo giusto, cosa fondamentale, perché è quello che sul set sa anche interpretare la storia che ho scritto. È lui che guarda nell’obiettivo e può suggerire un’idea vincente. Ma sul set conta il gioco di squadra.
Una parte importante del mio lavoro poi è il montaggio delle singole fotografie, cioè l’impaginazione, durante la quale creo le tavole in modo da far fluire il racconto, tagliando, stringendo, capovolgendo le fotografie…
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