Maria: una storia di affidamento familiare

Chi prende un bambino in affido si mette in gioco e sperimenta una forma di genitorialità non biologica che può essere appagante

Affidamento familiare: alcuni bambini

«Ognuno di noi vive nell’attesa di qualcosa, ma la realtà dei fatti è sempre diversa da ogni congettura e persino da ogni mira» scrivevo tempo fa. Talvolta accade che i nostri desideri si realizzino in modi inaspettati, o magari dopo lunghe attese, quando abbiamo ormai smesso di sperare che si realizzino.

La mia amica Maria, una donna non sposata, aveva perso le speranze. Non credeva più che i Servizi sociali le avrebbero concesso l’affidamento di un bambino, come desiderava tanto. Era convinta che gli operatori l’avessero etichettata come una persona difficile, dal palato delicato, a cui non vanno bene le situazioni che potrebbero rivelarsi impegnative. 

Aveva seguito scrupolosamente le regole. Il Comune organizzava corsi di preparazione all’affidamento familiare e lei ne aveva frequentato uno. Gli assistenti sociali avevano visionato la sua casa per verificare che fosse idonea, e avevano dato parere positivo.

È andata bene, pensava Maria. Avrò presto un bambino di cui prendermi cura. Potrò dedicarmi a questo compito, potrò in qualche modo essere madre. La vita non mi ha concesso questa possibilità, per tutta una serie di ragioni, ma finalmente ho l’occasione di rimediare.

Poi però i Servizi sociali le avevano proposto di accogliere in casa sua una bambina malata terminale e senza famiglia, e Maria era rimasta esterrefatta. Non era certa di sentirsela. Lei desiderava impegnarsi per dare un futuro migliore a un bambino sfortunato, non voleva dare conforto a un bambino che un futuro non ce l’aveva proprio.

Non aveva detto di no, ma nemmeno di sì, e la cosa si era trascinata per un po’, finché l’assistente sociale non aveva trovato una coppia disposta a prendersi cura di quella bambina.

Dopo un mese, l’assistente sociale era tornata all’attacco. Quella volta si trattava di accogliere un’adolescente problematica che una famiglia ce l’aveva, ma era proprio disastrata, e Maria non aveva esitato: aveva detto subito di no. Non era quello che voleva. Un’adolescente non è una bambina, è una persona già formata, è per forza di cose una ribelle, e poi l’affidamento prevede un minimo di rapporto con la famiglia del minore e lei, con la famiglia di quella ragazzina, preferiva non avere a che fare.

Ma forse lei voleva qualcosa che nella realtà non c’era. Forse aveva sbagliato a intraprendere quel percorso, cominciava a pensare; forse non era in grado, non era la persona adatta.

E poi, dopo altri tre mesi, in un pomeriggio come un altro, Maria era nel salotto della sua casa. Era immersa nella lettura di un romanzo e sfogliava le pagine con lentezza: quel libro le piaceva così tanto che temeva di finirlo troppo presto. Era arrivata a un momento clou della trama quando il suo smartphone si mise a strepitare. Sbuffò e rispose freddamente. Era l’assistente sociale.

Una bambina di sette anni, di origini africane, aveva bisogno di una donna che le facesse da madre.

Maria fu immediatamente certa che quella donna sarebbe stata lei. L’operatrice concluse la telefonata con una formula di rito, “ti lascio qualche giorno per pensarci, poi ci risentiamo, okay?” ma lei rispose che no, non aveva bisogno di pensarci, che era senz’altro disposta a incontrare la bambina, che per lei l’iter dell’affidamento poteva iniziare anche subito.

Ho visto con i miei occhi quella bambina trasformarsi nel tempo, grazie alle cure di Maria, da creatura spaventata in una ragazzina allegra ed energica; il suo rendimento scolastico passare dal nulla all’ottimo, le sue difficoltà nel relazionarsi con il prossimo lasciare il posto a una vivace socialità adolescenziale e a una sorprendente capacità di interloquire con gli adulti.

L’ho vista, e la vedo tuttora, chiamare “mamma” Maria, una donna che non ha alcun legame genetico con lei.

Figlia del cuore, il mio romanzo uscito il 16 settembre 2020 per i tipi di Marcos y Marcos, si occupa di questi argomenti ed è basato su questa storia.



Di affidamento familiare si è parlato molto, e molto male, a partire da circa un anno fa (ça va sans dire, caso Bibbiano). Ora l’indagine è chiusa, si faranno i processi, si capirà finalmente cosa diavolo è successo sgombrando il campo da ogni strumentalizzazione. Ma anche se la mela fosse marcia, il resto dell’albero, fino a prova contraria, è sano. È ovvio che delegittimare il lavoro degli assistenti sociali, e denigrare l’affidamento familiare in quanto tale, significa mettere in pericolo migliaia di bambini sfortunati.

Come funziona l’affidamento familiare

Alcuni genitori non sono in grado di occuparsi dei propri figli perché hanno problemi che, però, sembrano avere una natura transitoria; allora interviene questa formula, nella quale un sostituto del genitore, per qualche tempo, si prende cura del bambino.

Tutti possono prendere un bambino in affido: coppie con e senza figli, sposate oppure no; persone nubili e celibi, divorziate e vedove, persone e coppie omosessuali. Si tratta di una formula elastica e adattabile: può prevedere che il minore si trasferisca nella casa dell’affidatario, che vi dorma alcune notti a settimana o che non vi dorma affatto (vedi anche questa intervista con Carla Forcolin). L’affido può essere consensuale, cioè disposto in accordo tra la famiglia di origine, i Servizi sociali e gli affidatari, oppure giudiziale, cioè ordinato dal Giudice e disposto senza il consenso della sua famiglia.

In Italia i bambini in affidamento familiare residenziale (che, cioè, abitano con l’affidatario) sono poco più di 14.000; in quattro casi su cinque il provvedimento è ordinato dal Giudice. Si tratta di un numero davvero esiguo se lo si confronta con i dati della Spagna (19.000 bambini), dell’Inghilterra (oltre 50.000), della Germania (quasi 70.000) e soprattutto della Francia (oltre 97.000).

Dati aggiornati al 2017 e pubblicati nella primavera di quest’anno a cura del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nei Quaderni della ricerca sociale, n. 46.

Da noi, evidentemente, si preferisce non interrompere i rapporti tra genitori e figli biologici, a meno che le situazioni appaiano proprio irrecuperabili; si tende a dare al legame di sangue un valore forse eccessivo, magari ideologico, senza dubbio di gran lunga superiore a quello percepito dagli inglesi, dai francesi e dai tedeschi.

Proverei a utilizzare un termine di moda: sopravvalutato. In Italia il legame di sangue (c’è chi ancora parla di “sacro vincolo”) sembra sia parecchio sopravvalutato.

About

Questo è il sito di Rita Charbonnier, autrice dei romanzi Figlia del cuore (di prossima uscita per Marcos y Marcos), La sorella di Mozart (Corbaccio 2006, Piemme Bestseller 2011), La strana giornata di Alexandre Dumas e Le due vite di Elsa (Piemme 2009 e 2011). Scopri di più...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *