Ma è davvero così? Intervista con una psicoterapeuta dalla lunga esperienza in un gruppo di lavoro dedicato all’affido e all’adozione

Oltre la tavola, ingombra dei resti della cena, sedevano due coniugi. Lei larga di fianchi, muscolosa e forte; lui magro e occhialuto, dai capelli un po’ unti. Ero a disagio, perché quei due parlavano male dei Servizi sociali da un abbondante quarto d’ora, scagliandomi addosso tutta la loro rabbia. Desideravano adottare un bambino e gli operatori incaricati di valutare la loro idoneità genitoriale li avevano presi di mira; era chiaro che l’idoneità gliel’avrebbero negata (così dicevano, poi non so come sia andata a finire).
I Servizi sociali ragionano per schemi preconfezionati, sosteneva lui, infoiato. Hanno in mente tutta una serie di tipologie di genitori adottivi e, ogni volta che incontrano una coppia, la inseriscono in una specie di casella. Scartano sempre e subito le coppie che, così si dice, “non hanno elaborato il lutto della sterilità”, non hanno fatto pace con il mancato arrivo di un figlio prima per vie naturali, poi attraverso la procreazione medicalmente assistita. Cosa che tutti provano a fare, prima di tentare la via dell’adozione, ha affermato con decisione. Loro due invece non avevano tentato la procreazione assistita, perché non volevano un figlio con l’aiuto della medicina, volevano adottare punto e basta, e i Servizi questa cosa non riuscivano a capirla.
Quell’uomo, insomma, ce l’aveva a morte con i Servizi sociali. Mi ha fatto venire voglia di approfondire l’argomento; avevo un’idea vaga di chi fossero questi professionisti, di cosa facessero. E poi, ad agitare ancor più le acque, c’è stato il caso degli affidamenti sospetti di Bibbiano.
Mi sono rivolta alla dott.ssa Silvia Presciuttini, psicoterapeuta con un’esperienza decennale in un gruppo di lavoro specialistico dedicato all’affido e all’adozione, e le ho chiesto di parlarmi del suo lavoro.
Chiaramente i “Servizi sociali” sono una realtà nella quale l’ente che eroga i fondi e quindi paga gli operatori è un ente pubblico. «L’espressione è utilizzata in maniera generica, a volte» ha detto la psicoterapeuta. «Ma di fatto, gli operatori che si occupano di adozioni e affidi costituiscono un gruppo di lavoro specialistico integrato tra ASL e Comune; ne fanno parte psicologi e psicoterapeuti, che lavorano in stretta collaborazione con i giudici onorari presso il Tribunale per i minorenni. Tutti questi operatori devono aver seguito un percorso di formazione specifico. Noi avevamo seguito un corso biennale sull’affido e l’adozione diretto agli operatori dei Servizi pubblici e gestito in maniera, devo dire, egregia dalla Regione Lazio.»
In altre parole, non ci si improvvisa e non si prende di mira nessuno.
Certamente no. D’altra parte, come in tutte le professioni, abbiamo a che fare con delle persone. Quindi, anche se c’è un modello in linea di massima condiviso, gli operatori sono individui che possono avere storie e formazioni di base diverse, che inevitabilmente hanno la loro visione del mondo e la loro personalità; il che può influenzare le loro scelte. In ogni caso, la cornice di riferimento parte dalla legge: indipendentemente da come la pensino, gli operatori devono agire all’interno delle norme vigenti.
Ordina Figlia del cuore
Quindi i Servizi sociali non potrebbero, per esempio, dare parere favorevole all’adozione di un bambino da parte di una persona singola o di una coppia omosessuale.
No, perché la legge non prevede queste cose.
In America l’adozione da parte delle persone singole esiste da metà dell’Ottocento, e l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso è oggi consentita in diverse nazioni europee.
Lo sappiamo, ma per la legge italiana l’adozione è consentita solo alle coppie coniugate; forse anche come espressione del Concordato con la chiesa cattolica, che riconosce la famiglia costituita da un uomo e una donna uniti in matrimonio come cellula fondamentale della società e quindi soggetto di diritto. In ogni caso, la legge non tutela il diritto delle coppie ad avere un figlio, ma il diritto di ogni bambino ad avere una famiglia. È intitolata così: “Diritto del minore alla propria famiglia”. Quindi è compito del Tribunale applicare questa legge ed è compito degli operatori muoversi in questa cornice.
Quali altri fattori possono influenzare le scelte degli operatori dei Servizi sociali?

È necessario confrontarsi con le risorse che si hanno concretamente a disposizione. Per esempio, la mia esperienza è che è molto difficile reperire famiglie, coppie, persone singole disponibili all’affido familiare.
Come mai?
Adozione e affidamento sono istituti diversi, che comportano un’esperienza di relazione completamente diversa con il bambino. Con l’adozione, il bambino diventa figlio a tutti effetti; acquisisce i diritti che spettano a tutti gli altri figli, compresi i diritti economici ed ereditari. Questo significa che, per legge, il figlio adottato interrompe ogni relazione con la famiglia di origine. Solo quando sarà grande, se vorrà, potrà ottenere informazioni, passando attraverso il Tribunale. Quindi, dal punto di vista della coppia che vuole adottare, il figlio adottivo diventa figlio, diciamo così, per sempre (salvo che non intervengano fatti gravissimi e che questo figlio non venga in qualche modo ricusato).
Quella dell’affidamento, invece, è un’esperienza a termine e tutte le parti in causa lo sanno fin dal principio.
La famiglia affidataria, che si tratti di un single o di una coppia con o senza figli, deve sapere che, dal punto di vista della legge, il bambino che prende con sé e che tratta come un figlio, e al quale si affeziona come se fosse un figlio, e viceversa, non diventerà un figlio (a meno che non intervengano cambiamenti importanti nello stato giuridico di quel bambino). D’altra parte, il progetto di affido può nascere dal desiderio di dare energie, disponibilità, affetto a un bambino che ne ha bisogno: noi abbiamo delle risorse – pensa l’adulto – abbiamo delle capacità, ci piacerebbe avere più bambini per casa, mettiamoci a disposizione. E naturalmente, a un bambino che abbia una situazione familiare molto carente, l’affido permette di fare un’esperienza decisamente migliore di quella di vivere in un istituto. Un’esperienza di tipo familiare, con delle persone che hanno una solidità morale. Prendere un bambino in affido, per concludere, comporta una disponibilità a dare…
E non a ricevere?

Eh, no, si riceve eccome! Però la fantasia è quella: se io adotto un bambino, “guadagno” anche un figlio. Se lo prendo in affido, accetto la prospettiva di un grande sacrificio, quello di dovermi separare da questo bambino il giorno in cui il Tribunale dovesse dirmi: okay, grazie, basta così perché adesso possiamo reinserire il bambino nella sua famiglia. D’altra parte, forse questo può anche indurmi a dare al bambino quello di cui ha bisogno non tanto perché “serve a me”, perché questo è “mio” figlio e in futuro dovrà restituirmi quello che gli sto dando in termini di amore, devozione, rispetto e stima, il bastone della mia vecchiaia eccetera… ma semplicemente perché penso che gli faccia bene. E sarò felice nel vedere che lui migliora, sta bene, mi vuol bene.
In conclusione, mi spieghi la faccenda della cosiddetta elaborazione del lutto della sterilità?
È un’espressione in “psicologhese” che può sembrare una frase fatta, ma dietro c’è tutto un lavoro, c’è un pensiero. Quando una coppia richiede l’adozione, i Servizi sociali sono tenuti a svolgere la cosiddetta indagine, la procedura atta a stabilire se la coppia sia idonea. Già il termine è poco rassicurante, e in effetti da molti l’indagine è vissuta come una funzione non tanto di servizio, quanto di controllo e quasi di polizia. A volte la coppia non è sufficientemente preparata alla fatica, ai rischi, ai conflitti che comporta adottare un perfetto estraneo… però qui lo dico e qui lo nego, perché parlandone in termini semplificati si rischia di cadere nel giudizio di valore, nella morale, anche nel moralismo. Chi vuole adottare un bambino, o anche prenderlo in affido, in sostanza, può essere mosso da un bisogno irrefrenabile di risolvere quella che percepisce come una grave lacuna nella sua vita: il non aver avuto figli. E allora queste persone non vogliono vedere, non vogliono sentir parlare delle difficoltà, anzi affermano che i Servizi “stanno qui apposta per terrorizzarci”… non sai quante volte l’ho sentito dire! In realtà quello che si fa è un lavoro di prevenzione e persino di supporto; si cerca di preparare le persone alle complessità dell’adozione. Perché non è vero che “basta l’amore” a fare una famiglia. La disponibilità affettiva verso il bambino non è sufficiente quando si mette al mondo un figlio, figuriamoci in una situazione che inevitabilmente presenta maggiori complessità.