Mario: una storia di “fecondazione eterologa”

Un uomo sceglie di avere un figlio grazie a una donazione anonima di seme. Il bambino non sarà legato a lui dalla biologia, ma “solo” dall’affetto

Fecondazione eterologa, immagine simbolica: uno stetoscopio e un cuoricino

L’espressione “fecondazione eterologa”, di largo uso e che compare anche nel titolo di qualche libro sull’argomento, è — secondo alcuni — un’espressione infelice se non del tutto erronea. Il termine “eterologo”, in biologia, identificherebbe un organo, un tessuto, una sostanza che appartengano a una specie differente. Quindi non si potrebbe definire in questo modo la procreazione medicalmente assistita che usufruisce delle cellule sessuali di un donatore esterno alla coppia. È un estraneo, non è di un’altra specie.

Ma tutti o quasi la chiamano così, quindi anch’io parlerò di “fecondazione eterologa” attraverso la storia di un uomo che mi ha raccontato la sua esperienza. Nel rispetto dei suoi desideri, e in generale della privacy, non utilizzerò il suo nome: l’ho ribattezzato Mario, e ho ribattezzato sua moglie Maria.

Gli inizi

Mario e Maria sono coetanei, si conoscono fin da quand’erano bambini, si mettono insieme da adolescenti e a venticinque anni si sposano. Nei primi tempi della loro unione girano felicemente l’Europa in motocicletta, scalano pareti rocciose, fanno parapendio e rafting. Alle soglie dei trent’anni optano per uno stile di vita più sobrio e decidono che è arrivato il momento di avere un figlio. Pensano che basti iniziare ad avere rapporti non protetti per coronare il sogno, ma non succede niente. 

Lei ne parla con la sua ginecologa, che suggerisce di pazientare: “Si comincia a pensare di avere un problema dopo due anni di tentativi, non dopo qualche mese…”. Ma al termine di un anno Maria non ce la fa più, e trascina il marito in una clinica. Si sottopongono ad analisi e ne viene fuori che sono entrambi ipofertili. Hanno problemi per via dei quali è difficile che riescano a concepire un bambino, tutti e due.

Il verdetto li lascia stupefatti e angosciati, ma non disposti ad arrendersi. Lei inizia una cura da un ginecologo, lui da un andrologo. Per un anno si crivellano la pancia di punture, e non cambia nulla (se non che hanno perso quasi del tutto il desiderio l’uno dell’altra).

Il luminare

Non resta che affidarsi alla fecondazione in vitro. C’è un famoso ginecologo che promette miracoli: Mario & Maria prendono appuntamento, ci vanno, è una clinica lussuosa. Appena entrato, lui si guarda intorno, disorientato dalle immagini patinate, dai suoni ovattati, dagli odori delicati. Quando accede con Maria allo studio del luminare, si ritrova davanti un ometto che  gli fa una pessima impressione. Gli sembra che si atteggi a guaritore, ma che il suo sia un business privo di umanità. No, con lui non si può proprio fare.

Fecondazione eterologa: un laboratorio di analisi

Mario si butta su Internet, setaccia i centri per l’infertilità nel raggio di trecento chilometri da casa e ne individua uno in particolare, diretto da un andrologo che ha pubblicato articoli su una rivista prestigiosa. Va a visitare il centro, parla con i medici, gli piacciono, decide di affidarsi.

Maria deve ripetere buona parte delle analisi; lui viene sottoposto a una biopsia del tessuto testicolare, che consente di recuperare spermatozoi da un frammento di tessuto del testicolo. Ma di spermatozoi non ce ne sono da nessuna parte. Se Maria è ipofertile, Mario è infertile del tutto. Questo è il verdetto.

È uno choc. Però Mario è sicuro che non sia colpa sua. Non ha mai avuto comportamenti sessuali sconsiderati, ha sempre mantenuto uno stile di vita sano, non si droga, fuma al massimo cinque sigarette al giorno, non gli piacciono gli alcolici, fa sport da quand’è nato. Se non può avere figli, è colpa del caso. 



“Fecondazione eterologa”, l’ultima spiaggia

L’unica possibilità rimasta, a quel punto, è affidarsi alla “fecondazione eterologa”. Mario può avere un figlio solo grazie allo spermatozoo di un altro uomo. Un figlio che non sarà legato a lui biologicamente. Però, e questo lui lo sa per certo, sarà comunque suo figlio.

I medici gli spiegano che — così stabilisce la legge, in quel momento — non si può scegliere il donatore; niente cataloghi con le foto dei donatori quand’erano bambini e niente loro livello di istruzione e professione. Sarà un individuo di cui non si sa niente e che rimarrà per sempre anonimo, perché né il figlio né i genitori potranno mai contattarlo. L’unica cosa che si sa di lui è che è un individuo assolutamente sano. Potrebbe avere gli occhi e i capelli scuri come Mario, potrebbe avere una corporatura simile alla sua, come potrebbe anche essere diverso. E potrebbe aver già donato il seme in precedenza: potrebbe avere qualche altro figlio biologico chissà dove.

Mario ama la rete, passa le notti a setacciarla alla ricerca di blog e forum e articoli di giornale che parlino della “fecondazione eterologa”, e legge le storie più assurde.

Un tizio in America, tale Kirk Maxey, ha avuto quattrocento figli biologici. Iniziato a donare lo sperma su suggerimento della moglie, perché era pagato e in quel periodo avevano bisogno di soldi, l’ha fatto per anni senza pensare alle conseguenze e si è ritrovato in quella allucinante situazione.

Un altro tizio, in passato, ne ha avuti ancora di più. Si chiamava Bertold Wiesner ed era un medico. Tra gli anni 40 e 60 del Novecento, a Londra, inseminò artificialmente (e illegalmente) centinaia di donne con il proprio sperma, avendo circa seicento figli biologici. Che oggi sono in giro per il mondo, si sono ritrovati e di quando in quando organizzano colossali meeting.

E poi, in America esiste un “Registro dei fratelli per donazione” che si occupa di mettere in contatto tra di loro i figli biologici degli stessi donatori. Diversi siti online effettuano analisi genetiche, inseriscono i profili del DNA in un database, li confrontano e trovano parentele. Parentele di sangue.

“Ma a che serve tutto questo?” si dice Mario. “Davvero vogliamo pensare che la parentela sia legata solo alla biologia? Che possa non essere mio figlio quello che accolgo tra le braccia appena è nato, a cui cambio i pannolini, che accompagno a scuola, a cui insegno ad andare in bicicletta e a giocare a pallone?”

La nuova fase

L’odissea, che dura ormai da anni, entra nella fase decisiva. Maria assume farmaci per indurre l’ovulazione; gli ovuli vengono estratti e fecondati con gli spermatozoi di uno sconosciuto; gli embrioni vengono trasferiti nel suo utero. Non sempre la fecondazione ha successo e inizia lo sviluppo dell’embrione; non sempre l’embrione può essere trasferito in utero; non sempre attecchisce.

Si susseguono dieci frustranti tentativi, coronati da due gravidanze. La prima volta Maria arriva all’ottava settimana, si sente il battito fetale, dopodiché la gravidanza si interrompe. La seconda volta supera la soglia dell’ottava, poi della decima. A quel punto, dicono i medici, il rischio di aborto diminuisce. Però adesso bisogna fare l’amniocentesi: occorre verificare che il feto sia sano.

E purtroppo non lo è.

“Trisomia 9. Un’anomalia cromosomica incompatibile con la vita. Appena partorito, il bambino muore”. Questo dicono i medici a Mario, con un’aria ferale. Non è una patologia trasmissibile, quindi il donatore non c’entra nulla. Deriva da un errore nella suddivisione delle cellule dopo l’unione dei gameti. Non si sa a cosa l’errore sia dovuto.

Maria ce l’ha con se stessa, con la vita, con Dio, si dispera quel giorno, quella sera, quella notte, il giorno successivo e il giorno dopo ancora. 

“Fecondazione eterologa”: il triste epilogo

Per Mario la situazione è insostenibile. Secondo lui è ovvio che la gravidanza debba essere interrotta. Non riesce a comprendere come si possa anche solo pensare di portarla a termine, visto che avrà quell’epilogo. Sarebbe un accanimento crudele nei confronti di tutti, a cominciare dal nascituro. Eppure non gli è facile trovare un medico disposto a praticare l’interruzione terapeutica di gravidanza. Nessuno sembra volergli dare indicazioni precise; né la ginecologa di Maria, né il medico di famiglia, neppure gli operatori del centro per l’infertilità. 

Si affida ancora una volta alla rete, e riesce a trovare i riferimenti dei pochi medici ospedalieri che, nella sua regione, non si trincerano dietro l’obiezione di coscienza

Maria si sottopone a una perizia psichiatrica dalla quale risulta che portare avanti quella gravidanza comprometterebbe la sua salute fisica e mentale. Un parto abortivo conclude la storia. 

Lo so, non è una storia a lieto fine. Non esprimo giudizi. Lascio a voi le conclusioni.

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Questo è il sito di Rita Charbonnier, autrice dei romanzi Figlia del cuore (di prossima uscita per Marcos y Marcos), La sorella di Mozart (Corbaccio 2006, Piemme Bestseller 2011), La strana giornata di Alexandre Dumas e Le due vite di Elsa (Piemme 2009 e 2011). Scopri di più...

Un commento su “Mario: una storia di “fecondazione eterologa”

  1. Articolo interessante! Ormai le tecnologie vanno avanti… Leggendo, penso quante coppie oggi si trovano in difficolta ad avere i figli. Grazie alle tecnologie modernizzate tutto è possibile, come sappiamo già esistono le varie tecniche di procreazione assistita.

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