Madre surrogata, gestante di sostegno, portatrice: così si denominano le donne che decidono di portare avanti una gravidanza per qualcun altro. Ho intervistato una di loro

Il mio articolo sulla gestazione per altri è stato molto apprezzato da alcuni attivisti spagnoli per i diritti delle famiglie LGTBI+, mentre gli attivisti italiani hanno taciuto. Forse perché legittimamente stufi d’essere tirati in ballo quando si tratta di maternità surrogata, che non è certamente una prerogativa delle famiglie omogenitoriali.
#Italia
— Pedro Fuentes 🏳️🌈🇪🇸💚 (@PeFuCas) January 4, 2021
La escritora y actriz @RitaCharbonnier habla sobre #GestaciónSubrogada #GPA y lo hace pidiendo lenguaje respetuoso y como una elección que debería regularse, no prohibirse#Feminismo#Familia@PSOE @PODEMOS @populares @CiudadanosCs#StopSubrofobiahttps://t.co/KjzPEtIv6J
D’altra parte, la coppia eterosessuale che abbia avuto figli grazie a una madre surrogata tende a nasconderlo e può farlo (vedi il servizio televisivo all’interno di questo articolo), mentre una coppia di uomini con figli non potrebbe farlo neanche se volesse. È quindi inevitabile che, quando si parla di gestazione per altri, il pensiero corra alle coppie gay.
Il che induce un sospetto. Non ci sarà un po’ di omofobia nella feroce opposizione alla GPA che da più parti si solleva? La stessa violenza con la quale vengono espresse queste idee sembra (purtroppo) indicarlo. Come qualcuno ricorderà, Melania G. Mazzucco ne ha fatto le spese. Il suo bel romanzo Sei come sei (Einaudi, 2013) racconta una storia di omogenitorialità attraverso una gestazione per altri: i professori di un liceo romano lo inserirono in una lista di libri su argomenti di attualità da far leggere ai ragazzi, e i genitori dei ragazzi ne fecero uno scandalo. L’episodio deve aver molto turbato la scrittrice, che vi ha accennato anche nel suo libro successivo, Io sono con te (Einaudi, 2016).
Ho intervistato una giovane donna americana che ha portato avanti due gravidanze per altrettante coppie gay italiane: una di Roma, una di Torino. (Sarei stata felicissima di intervistare una madre surrogata per una coppia eterosessuale ma in quei casi, ribadisco, hanno tutti la bocca cucita). Questa madre surrogata, che chiamerò Mary, aveva avuto tre figli con il proprio marito per poi decidere — in pieno accordo con lui — di mettere a disposizione, diciamo così, il proprio utero per delle altre coppie. L’utero e basta: in entrambi i casi, gli ovuli provenivano da donatrici, quindi Mary non è geneticamente legata ai bambini che ha messo al mondo.
Mary è una ragazza ciarliera ed espansiva. Quel giorno era inguainata in un coloratissimo abito di lycra; portava in giro quel suo corpo con l’aria di ritenerlo la sua cosa più preziosa, e così era, probabilmente, e non solo per lei. Suo marito, un barbuto dallo sguardo vivace, le era accanto; parevano una coppia affiatatissima. Erano venuti in Italia per rivedere le coppie di papà a cui lei aveva dato un figlio, e anche per partecipare a un convegno sulla GPA.

«So che per la cultura italiana la surrogacy è incomprensibile — mi ha detto Mary — ma è anche perché nessuno sa come funziona veramente. Ci sono molti pregiudizi. Si pensa che sia una cosa brutta, fredda, che la donna sia sfruttata… c’è quell’espressione orribile, utero in affitto… e invece da noi, in America, tutto è basato sulla relazione che si stabilisce tra la donna e i genitori del bambino. Il rapporto con loro inizia molto prima che il bambino sia concepito.»
A quel punto è intervenuto il marito:

«Non sono i genitori intenzionali a scegliere la surrogata, è lei a scegliere loro. Incontra diverse coppie, fa un sacco di domande… deve essere sicura che le persone per cui farà la gravidanza potranno essere dei buoni genitori, e se le sembra di no, non se ne fa niente.»

«Essere un genitore non è una cosa per tutti, sai. Ci vuole senso di responsabilità, bisogna essere capaci di non pensare solo a se stessi… di superare le giornate nelle quali non hai voglia di occuparti del pupo, perché ci sono anche quelle! I bambini hanno bisogno di tempo e attenzione, allevarli è costoso… la tua vita non è più la stessa, dopo che hai un figlio. Quindi per me era importante trovare una coppia che mi sembrasse adatta ad affrontare tutto questo.»
E con la quale lei per prima — ho osservato — si trovasse in sintonia. Le sarebbe piaciuto trovare persone che le corrispondessero, con cui ci fosse una simpatia immediata, a prescindere dal progetto comune. Giusto?

«Certo, io desideravo la loro amicizia, e sono rimasta entusiasta quando i papà mi hanno chiesto se ero disposta a mantenere un rapporto con loro dopo la nascita del bambino. Ti piacerebbe che continuassimo a sentirci? Ti piacerebbe magari venire a trovarci in Italia? Ho risposto: sììì! E adesso sono qui, a Roma… quando ho iniziato il processo, non avrei mai potuto immaginare tutto questo!»

«Con i papà ci sentiamo spesso, per noi sono persone di famiglia. Gli abbiamo dato anche dei consigli, nei primi tempi. Noi abbiamo una certa esperienza, stiamo crescendo tre bambini, mentre per loro era la prima volta; è capitato che si sentissero in difficoltà su alcune cose, ci hanno chiamati e li abbiamo aiutati.»

«Io so per certo che questi bambini che abbiamo portato nel mondo sono circondati da persone che li amano e li allevano bene. Li vedo crescere. Ho conosciuto i loro nonni. Vedo i loro genitori fare per loro delle cose che a me non sarebbero venute in mente, e magari ne traggo ispirazione e le faccio anch’io con i miei figli… io ho dato molto a questi papà, in sostanza, ho sottoposto il mio corpo a un grandissimo stress, ma anche loro mi hanno dato molto, e continuano a farlo. È un dare e ricevere reciproco che dura nel tempo. Questa, per me, è la surrogacy.»
Per concludere e completare il discorso (almeno per oggi), un’altra gestante di sostegno esprime un punto di vista leggermente diverso nell’intervista qui sotto (all’inizio potrebbe esserci qualche secondo di pubblicità, mi spiace: non posso evitarlo e non ne traggo vantaggi).
Per quanto riguarda la maternità surrogata, ho trovato una legge ucraina tradotta in italiano. Consiglio a tutti di leggerlo.
Questa persona lavora evidentemente per una clinica ucraina nella quale si effettua la gestazione per altri, e i suoi numerosi tentativi di commentare i miei articoli, corredati di link, sono di carattere pubblicitario. Non mi interessa fare pubblicità alle cliniche ucraine (delle quali usufruiscono, a quanto sembra, numerose coppie eterosessuali italiane). Gentile “Stella”, per favore… basta.
Sempre che non sia una persona, ma un bot.