Città a vocazione mercantile e marinara, sin dall’inizio della sua storia millenaria Venezia nutre un rapporto privilegiato con il mondo musulmano: la più orientale tra le città occidentali
Articolo di Anna Burchi

Il 17 ottobre 1797 la firma del Trattato di Campoformio — con il quale Napoleone cede all’Austria la Repubblica di Venezia — pone fine alla plurisecolare autonomia della Serenissima, la cui speciale ubicazione al confine tra terra e mare ne aveva fatto una frontiera liquida tra Occidente e Oriente: la più orientale fra le città occidentali.
Città a vocazione essenzialmente mercantile e marinara, Venezia aveva nutrito sin dall’inizio della sua storia un rapporto particolare con l’Oriente. Nel V secolo le isolette della laguna intorno al Rivus Altus (il profondo canale al centro della laguna) offrono rifugio alle famiglie della Venetia romana, in fuga dalla terraferma flagellata dalle invasioni barbariche. Nel VI secolo Venezia è una modesta colonia dell’impero bizantino, da cui va gradatamente affermando la sua indipendenza: dalla fine del VII secolo la sostituzione delle cariche pubbliche dipendenti dall’impero con la figura del dux (doge) dai poteri essenzialmente militari, ma comunque espressione degli aristocratici mercanti discendenti delle famiglie dei fondatori, consentì alla città — avamposto settentrionale dell’impero — di rafforzare le sue istituzioni e di acquisire sempre maggiori indipendenza e autonomia, sviluppando contestualmente le sue attività mercantili lungo le rotte del Mediterraneo.

A differenza di quanto accadeva per tutti gli altri paesi dell’Occidente, l’Islam non rappresentò mai veramente uno spauracchio per Venezia, che improntò tutta la sua storia politica e mercantile a un lucido pragmatismo, dettato dalla necessità di garantire la vitalità e la sicurezza delle sue rotte commerciali. Persino la partecipazione della Serenissima alle Crociate ebbe poco a che vedere con i motivi religiosi legati alla riconquista del Santo Sepolcro: l’adesione di Venezia fu dettata dalla lucida valutazione degli effetti che la guerra avrebbe determinato sul piano politico ma soprattutto commerciale, e dalla preoccupazione di vedersi scalzare in oriente dall’affermazione di concorrenti potenze mercantili.
Con la partecipazione alla prima crociata del 1099, infatti, i veneziani stabiliscono basi e privilegi commerciali nell’area orientale, arrivando a disporre di una fitta rete di avamposti, battendo la concorrenza delle altre repubbliche marinare. Con la IV crociata (1204), a seguito della conquista di Costantinopoli e della dissoluzione dell’impero bizantino, Venezia diventa un grandioso impero coloniale con una catena quasi ininterrotta di porti e scali, che controllano i traffici dalla Dalmazia fino alle acque del Mar Nero. Con l’ingente bottino di guerra, poi, arriva in laguna — oltre ai preziosi oggetti che andranno ad arricchire il Tesoro di San Marco — il gruppo bronzeo dei quattro cavalli, da quel momento collocato sulla facciata della basilica marciana.

La lungimiranza della classe dirigente veneziana consentì alla città di sviluppare un’economia prospera, divenendo per secoli la principale mediatrice degli scambi tra l’Europa e il Levante. Da qui il rapporto peculiare di Venezia con l’Islam, improntato a un misto di attrazione e paura, fascino e rispetto, conditi da un’abbondante dose di pragmatismo mercantile. La diplomazia camaleontica e un ottimo senso degli affari, una politica che potremmo definire “della carota e del bastone” e, soprattutto, lo sforzo dell’oligarchia veneziana di mettere da parte le divergenze religiose, filosofiche e ideologiche per privilegiare quelle diplomatiche, politiche e pratiche, compongono l’originale mix con il quale Venezia divenne l’interlocutore politico e commerciale più rispettato nel vicino oriente.
I periodi di crisi e di guerra, che inevitabilmente la contrapposero ai musulmani, non pregiudicarono mai il rinnovo degli accordi economici e l’accoglienza reciproca delle rispettive ambascerie: Venezia si distingueva infatti dalle altre città occidentali per la presenza stabile di una sua comunità mercantile nelle principali città del vicino oriente. Questa reciproca e continua frequentazione produsse inevitabilmente una conoscenza diretta e molto approfondita degli usi, dei costumi e delle arti dell’oriente musulmano: fu così che Venezia divenne, anche sotto il profilo urbanistico ed architettonico, quella sorta di fiabesco crocevia che ci restituiscono le grandi tele dipinte dai pittori veneziani tra ‘400 e ‘500.

Venezia manterrà nei confronti del mondo islamico un approccio sempre razionale fondato su una conoscenza pratica: saprà comprenderne e apprezzarne la scienza e la filosofia (Padova divenne il principale centro dell’averroismo quando, con la Reconquista, gli studi di Averroè su Aristotele furono censurati dalla Spagna) e saprà tessere legami privilegiati con le grandi dinastie musulmane, pur nelle alterne vicende della storia. Esempio paradigmatico dello scambio fecondo che Venezia e la cultura orientale hanno per secoli intrattenuto è l’arte del vetro, che la Serenissima regolò ufficialmente nel 1291 con il trasferimento delle officine da Rialto a Murano, per ridurre i rischi di incendi che potevano scoppiare nelle fornaci, con gravi danni per le abitazioni e le attività vicine.
La produzione veneziana tardo-duecentesca di vetro smaltato può essere considerata il primo esempio del contributo da parte della creatività artistica dell’oriente musulmano all’artigianato veneziano. I vetrai islamici, attivi dal VII secolo, avevano ereditato i segreti dei romani e poi dei bizantini, sia nella tecnica che nelle decorazioni, per poi rinnovarsi nelle forme e nei decori dei manufatti e giungere a risultati tali da non avere rivali in nessuna parte d’Europa. Venezia conosceva questi prodotti grazie agli scambi commerciali, ai doni diplomatici e all’impegno di mercanti e ambasciatori che acquisivano tali oggetti e li portavano in patria. E conosceva anche, perché le commerciava da tempo, le materie prime necessarie alla produzione dei vetri islamici.

Gli artigiani veneziani, carpendo i segreti per la fabbricazione di tali vetri, dettero vita ad una produzione locale destinata al mercato europeo che avrebbe prosperato per lungo tempo, e avrebbe decretato il successo del vetro veneziano nei secoli successivi. Tanto bene gli artigiani veneziani conoscevano le tecniche produttive del vetro islamico, che una serie di bicchieri in vetro smaltato e dorato sono stati per molto tempo ritenuti fabbricati in oriente e adattati al gusto decorativo europeo per rispondere alle esigenze di una clientela occidentale. Ma in realtà tali bicchieri, e altri oggetti analoghi, sulla base di moderne analisi scientifiche condotte sulla composizione del vetro, sono risultati di fattura veneziana: si ispirano ai modelli islamici per l’iconografia e la tecnica, ma si adattano alle esigenze e ai gusti dell’occidente nella ricerca di innovazioni tecniche e artistiche indispensabili per garantire il successo della nuova industria veneziana.
L’intenso rapporto tra Venezia e il mondo islamico, particolarmente fecondo dal XIV al XVII secolo, si manifesta in tutti gli ambiti della produzione artigianale ed artistica dando spesso luogo a un curioso fenomeno di ibridazione produttiva per il quale a volte, ancora oggi a distanza di secoli, è difficile stabilire con certezza se una stoffa, un vetro o un gioiello siano prodotti veneziani orientaleggianti o prodotti orientali importati. Se Venezia si avvicina con rispetto e ammirazione alla cultura islamica, importandone tecniche e stili, ne riceve in cambio altrettanto interesse. I lussuosi tessuti importati dalla Turchia erano utilizzati per la confezione di paramenti sacri e di abiti per le più alte cariche della Repubblica, ma i potenti di Istanbul commissionavano da parte loro a Venezia occhiali, orologi, carte geografiche e preziose lampade di vetro per le moschee.
Tale lunga e proficua reciprocità, sospesa tra fascinazione intellettuale e dipendenza tecnologica, continua anche nei periodi in cui la storia mette di fronte le due civiltà, e le interazioni, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, aumentano specialmente nei periodi di conflitto. Nei momenti di tensione, le ambascerie diplomatiche si infittivano e lo scambio di doni accresceva il valore dei beni acquistati oltremare. Emblematico in tal senso è quanto avvenne dopo il 1453, a seguito della caduta di Costantinopoli in mano agli ottomani: Venezia perse molti degli scali commerciali nel Mediterraneo orientale e accettò la pace col sultano, rinunciando a tutti i territori persi, obbligandosi a versare un’ingente somma di denaro per continuare a godere dei privilegi commerciali in quell’area. Contemporaneamente, il sultano ottomano chiese a Venezia di inviare a Istanbul il pittore dei dogi, Gentile Bellini, per farsi ritrarre da lui alla moda occidentale e sentirsi legittimato dalle corti europee. Nel 1479 il famoso ritratto di Mehemet II contribuisce a diffondere in Italia l’immagine del sultano divenendo contestualmente un canone nella tradizione emergente del ritratto ottomano.

Nel corso del XVI secolo, l’espansione dell’impero ottomano provoca scontri e momenti di tensione: ma le due parti non interrompono nella sostanza i loro rapporti, che conoscono ancora lunghi periodi di pace e di relazioni amichevoli sul piano commerciale e politico. Così scriveva nel 1569 il diplomatico veneziano Marcantonio Barbaro, nei suoi Dispacci da Costantinopoli:
Si può dire che il negoziare sia a similitudine del giocare con una balla di vetro che è necessario sostentarla con destrezza sempre in aere non la lasciando né dar in terra né ribattendola con furia di posta, perché la romperebbe, ma prendendola destramente e poi con opportunità rimandandola vivamente.
Anche la battaglia di Lepanto — che nel 1571 vide la flotta veneziana infliggere una storica sconfitta navale ai turchi per conto della Lega Santa — non mutò le cose. Le diplomazie ottomana e veneziana lavorarono alacremente e, dopo due anni dalla vittoria, la Serenissima negoziò un trattato segreto con gli ottomani. Venezia aveva bisogno ancora del mercato orientale, soprattutto dopo la scoperta delle Americhe e della nuova rotta del capo di Buona Speranza, che indirizzava il traffico delle spezie verso l’Atlantico portoghese. Istanbul, da parte propria, aveva bisogno di Venezia perché era il suo miglior cliente: i rapporti commerciali e diplomatici vennero dunque normalizzati e continuarono nel secolo successivo, nonostante la continua e perdurante perdita di roccaforti veneziane nel Mediterraneo orientale e la guerra austro-turca, che vide nel 1683 gli ottomani assediare Vienna, e Venezia entrare ancora una volta nella Lega Santa.
L’Islam era stato un elemento vitale per l’esistenza di Venezia, nella buona e nella cattiva sorte, e la Serenissima non era destinata a perire sotto i colpi del principale nemico dell’occidente. La progressiva perdita di tutti i porti del Mediterraneo orientale, e l’interruzione delle rotte commerciali che erano state a fondamento dell’economia veneziana, imposero alla Serenissima di reinventarsi come nazione continentale espandendosi nella Pianura Padana dove ineluttabilmente andò a scontrarsi con gli interessi francesi e austriaci.
Così, nell’anno in cui la Repubblica veneziana avrebbe dovuto celebrare gli undici secoli dalla sua nascita, terminò la storia di quella che era stata la maggior potenza marittima d’Europa. La sua fine arrivò dall’Europa, nella persona di Napoleone. Il 17 maggio 1797 il Maggior Consiglio della Repubblica si riunì per l’ultima volta, e il doge Lodovico Manin esortò i nobili veneziani a proclamare la resa della città alle truppe del generale Bonaparte che dieci giorni prima aveva dichiarato guerra alla Serenissima. Sei mesi più tardi, la firma del Trattato di Campoformio, con l’annessione di Venezia all’Austria, segnò la fine della millenaria Repubblica veneziana.
Anna Burchi
Anna Burchi è storica dell’arte e guida turistica per la Provincia di Roma.