I test genealogici ci dicono quanto del nostro DNA proviene dall’uomo di Neanderthal, e in che modo il nostro lontanissimo antenato ci renderebbe quelli che siamo… ma questo tipo di analisi del DNA ha applicazioni più interessanti

Quindici milioni di persone nel mondo hanno sputato in una provetta, l’hanno sigillata e spedita in un lontano laboratorio allo scopo di ottenere informazioni sui propri antenati. Ma quello che scopre chi si sottopone a un test genealogico è davvero utile a qualcosa?
Ne ho parlato in un precedente articolo: il test genealogico consente di determinare il luogo del mondo nel quale hanno vissuto i propri antenati delle ultime 10-20 generazioni. Quelli dei quali si è persa la memoria.
Un tipico test genealogico può dirti, per esempio, che l’87% della tua ascendenza è italiana, e che negli ultimi 200 anni i tuoi antenati hanno vissuto in Abruzzo, Campania e Toscana. Ti dice inoltre che un 8% della tua ascendenza è franco-tedesca e un 5% è spagnola.
Fin qui, nulla di sorprendente. Poi, però, il responso va parecchio più indietro, e ti rende noto che tra i tuoi antenati ci sono degli uomini di Neanderthal: il 2% del tuo DNA (circa) viene da loro. E ti dice anche che i geni del Neanderthal sarebbero in grado di determinare il tuo carattere, la tua struttura fisica, i tuoi gusti alimentari. Non soffri (meno male) di vertigini, sei più probabilmente un velocista che un maratoneta, non ti piacciono smodatamente i dolci e hai la forfora: tutto per via dei tuoi avi con la clava.

Chissà se è davvero così. Inoltre, i test genealogici non potrebbero darci informazioni più utili, come ad esempio la predisposizione a contrarre una malattia, ereditata dagli avi? O magari la predisposizione a non contrarla: in tempi di pandemia si è molto parlato della protezione che i geni dei Neanderthal offrirebbero dal Covid. E nelle indagini di polizia, e nei processi, si utilizzano anche test del DNA di questo tipo?
Torno a parlarne con Silvano Presciuttini, professore universitario di Genetica specializzato nell’analisi statistica degli alberi genealogici e nello studio della struttura genetica delle popolazioni, nonché autore de La prova del DNA fra probabilità e certezza (Giuffrè Francis Lefebvre, 2019).
Anche lui si è sottoposto a un test genealogico, presso un’azienda americana, e mi ha confermato che il suo test contiene una sezione dedicata ai geni provenienti dai Neanderthal. «La storia dei “residui” genetici di Neanderthal nel genoma di Sapiens risale ad alcuni anni fa» mi ha detto «ed è più che altro una curiosità evoluzionistica. D’altra parte, ha molto colpito l’immaginario della gente.»
Ma come mai nel nostro genoma è presente una certa percentuale di DNA neandertaliano? Mi racconteresti, in breve, questa “curiosità evoluzionistica”?
Ci provo. Secondo l’attuale ricostruzione dell’evoluzione umana, le linee di discendenza che hanno portato da una parte ai Neanderthal, dall’altra ai Sapiens, cioè a noi stessi, si sono separate più di 500 mila anni fa. Senonché, circa 50 mila anni fa, i nostri progenitori emigrarono dall’Africa e incontrarono in Medio Oriente e in Europa i Neanderthal, con i quali in parte si rimescolarono, prima che i Neanderthal stessi si estinguessero. Per questa ragione, negli attuali europei e asiatici si trovano dei polimorfismi, o marcatori (i “mattoncini” di colore diverso di cui parlavamo la volta scorsa) che provengono dai Neanderthal, e che mancano nelle popolazioni africane, le quali non vennero mai in contatto coi Neanderthal.
Dunque, è possibile che i “residui” genetici dei Neanderthal influenzino la nostra suscettibilità ad avere le vertigini, la nostra capacità di resistenza allo sforzo, i nostri gusti alimentari…?
Beh… le aziende specializzate nei test genealogici devono in qualche modo catturare la curiosità della gente, ma da un punto di vista scientifico la faccenda è meno entusiasmante di quanto possa apparire. Si tratta perlopiù di amenità. Per me che sono del mestiere, la cosa divertente è non solo vedere quanto ci hanno “acchiappato” su di me caso per caso, ma anche andare a vedere su quali studi hanno basato la loro predizione.

Quindi, alla base di quelle affermazioni ci sono comunque degli studi scientifici.
Sì, e le cose che dicono non sono mai francamente scorrette. Ad esempio, può essere vero che una certa variante si sia originata nella notte dei tempi in un individuo Neanderthal, si sia diffusa in quella popolazione e poi sia stata trasferita ai Sapiens europei-asiatici via mescolamento. Il problema è che non si può affermare che quella variante sia responsabile di una specifica predisposizione, come il soffrire di vertigini (secondo il mio test, io sarei poco propenso a soffrirne).
Perché non si può affermare?
L’azienda alla quale ho commissionato l’analisi spiega che per studiare questo tratto ha utilizzato le risposte a un questionario di più di 750.000 dei suoi clienti, e ha identificato 392 marcatori genetici che sono diversi fra coloro che hanno dichiarato di soffrire di vertigini e coloro che no. Da tutto ciò ha ricavato un modello statistico, che calcola la probabilità che un soggetto tipizzato per quei marcatori soffra di vertigini. Il problema principale è che l’accuratezza della predizione è piuttosto bassa. Ma soprattutto, io dubito che si possa stabilire in modo affidabile se un soggetto “soffra di vertigini” o no, sulla base di un questionario autosomministrato.
Ci sono applicazioni più utili di questo tipo di analisi del DNA? Possiamo scoprire se siamo più o meno predisposti a contrarre qualche malattia?
Certamente: nel caso delle malattie serie il discorso è diverso, perché esse sono ben definite da parametri oggettivi. Un test di tipo genealogico dà modo di calcolare, ad esempio, la probabilità di sviluppare il morbo di Alzheimer, o quello di Parkinson, e di contrarre molte altre malattie. Io mi sono occupato a lungo della suscettibilità genetica al cancro del colon e della mammella, e in questi casi sappiamo molto bene (tragicamente) di cosa stiamo parlando. Non solo sono stati identificati i geni le cui alterazioni aumentano il rischio di cancro, ma si sa anche, per la maggioranza di tali alterazioni, qual è l’aumento di rischio. In questo modo le persone portatrici di tali alterazioni possono essere condotte a fare scelte ben ponderate, prima di sviluppare i tumori.

Quindi, siccome tu hai commissionato il tuo test genealogico a un’azienda americana, sai anche a quali malattie sei geneticamente predisposto.
E invece no! La legislazione europea stabilisce che qualsiasi test genetico che abbia risvolti sanitari deve essere eseguito sotto supervisione medica individuale. L’azienda americana che mi ha fatto il test può sapere tutto di me, volendo: può calcolare, per esempio, il mio rischio di morte o invalidità per malattie cardiovascolari nel prossimo quinquennio. Però non me lo può dire, perché l’Europa (e l’Italia in particolare) non vuole… io la considero una violazione di un mio diritto fondamentale, ma evidentemente non tutti la pensano così.
Ma allora, chi sono i soggetti che effettuano i test genealogici dai quali puoi scoprire queste cose così importanti?
Attualmente in Italia si passa per il sistema sanitario: se c’è il sospetto di una specifica suscettibilità genetica a una malattia per una persona, questa viene informata che può rivolgersi a un laboratorio di genetica medica, dove vengono effettuati i test che sono attualmente riconosciuti dalle linee guida.
Tu fai anche parte di collegi peritali sull’esame del DNA in processi civili e penali. Che differenza c’è tra il test del DNA “standard” e quello genealogico?
Il test genealogico è basato su 500.000 e più polimorfismi, mentre il test di identificazione forense è basato su un set molto minore (una trentina al massimo) di altri marcatori genetici più “vecchi”, i cui protocolli di analisi sono talmente collaudati che sono diventati standard scientifico nei tribunali.

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Nelle indagini di polizia, e nei processi, vengono anche utilizzati test genealogici?
Sì, questa linea di indagini si è molto sviluppata negli ultimi anni, in particolare dopo un caso che si è verificato nel 2018 in California. Un serial killer che la polizia cercava da decenni fu identificato grazie a un test genealogico effettuato sul suo materiale biologico reperito nelle scene dei crimini. Il profilo del killer è stato confrontato con quelli di GEDmatch, un database di circa 1 milione di profili DNA di utenti che hanno acconsentito all’uso dei propri dati. Ne è saltato fuori un suo cugino di terzo grado: bingo!, come dicono appunto in America. È seguita una ricerca meticolosissima. Cinque investigatori impegnati per mesi nell’esaminare i registri dei censimenti, i necrologi dei giornali, le tombe dei cimiteri… così da ricostruire l’intera genealogia a partire dall’antenato comune al killer e al suo lontano parente, che era vissuto ai primi del 1800. Uno dei rami finalmente ha condotto a un ex poliziotto di 72 anni che se ne stava tranquillo a godersi la pensione. Il suo DNA, estratto da un oggetto che aveva maneggiato, coincideva con quello del killer: si trattava di Joseph James DeAngelo, il famigerato “Golden State Killer”.