L’amante di Chopin

Estratto


1836

Dei ‘grandi uomini’ ne ho piene le tasche (passatemi l’espressione). Vorrei vederli tutti in Plutarco. Lì, non mi fanno soffrire umanamente. Intagliamoli nel marmo, fondiamoli nel bronzo e non parliamone più.

Lettera di George Sand alla contessa d’Agoult, detta ‘Arabella’, 10 luglio 1836

Ho fatto la conoscenza di una gran celebrità: madame Dudevant, conosciuta sotto il nome di George Sand; ma il suo viso non mi è simpatico e non mi è piaciuta per niente. C’è anche in lei qualcosa che mi allontana.

Lettera di Fryderyk Chopin alla sua famiglia a Varsavia, autunno 1836

È una delle sue mazurche: a Parigi tutti le conoscono a memoria, ormai. Poi però il pianista esegue una serie di variazioni che la rendono pressoché irriconoscibile, finché non la abbandona per lanciarsi in un’improvvisazione pura.

Si annienta, e nello stesso tempo si esprime con una potenza della quale, fino a poco prima, non s’immaginava fosse capace. Tranne il dialogo travolgente che ha instaurato con il pianoforte, ogni cosa del mondo sembra aver cessato di esistere, per lui. Le sue mani si estendono e s’incrociano sui tasti, assumendo pose inusuali e producendo un fascinoso accumularsi di ondate vorticose.

Anche per Aurore, ogni cosa del mondo ha cessato di esistere. I pochi amici rimasti nel salone fino a quell’ora così tarda, i loro volti assorti, quel che resta del rinfresco, tutto è oscurato dalla musica creata all’impronta dal famoso polacco che lei desiderava conoscere. Quando gliel’hanno presentato, magro, pallido, elegantissimo, con una gran testa quasi bionda, ha giusto avuto il tempo di scambiarci i primi convenevoli; adesso è la sua musica a parlarle evocandole ricordi remoti, il volto amato della madre, le aiuole della residenza di campagna, il servizio da tavola con i ramaggi sui bordi.

Chiude gli occhi e si adagia sullo schienale della poltroncina, cedendo a un moto di nostalgia; ma un’imprevedibile successione di note gravi, di una drammaticità quasi sgraziata, le riporta alla memoria le parole di una dolorosa lettera di addio che ha dovuto scrivere quasi due anni prima.

Poi, s’immagina discendere lungo un pendio, su una carrozza; ascolta una pioggerella posarsi sulle foglie degli alberi, ma non è una pioggia generata dalla natura: l’ha creata scientemente un artista di eccezionale levatura. Come si fa a lanciarsi così, senza controllo, senza sapere dove si va? Come si può, gettandosi nel vuoto, raggiungere risultati di una tale grandezza?

Chissà poi se il bel mondo è in grado di percepirlo. Chissà se gli amici che la circondano arrivano a comprendere come ogni altro pianista sparisca, di fronte a quel giovane uomo. Neppure Liszt riesce a essere altrettanto innovativo. Le sue improvvisazioni lasciano sopraffatti dall’ammirazione; sono esaltanti, tecnicamente superlative, ma sprizzano un’energia più febbrile che schietta; gli effetti drammatici sono più ricercati che sentiti. Chopin non mira a stupire il pubblico. Sembra attingere a profondità note a lui solo. Chopin è un fiume nascosto nei recessi del suolo, che quando emerge nutre e corrobora, ma può essere devastante.

Scatta un applauso devoto, e Aurore si rende conto di avere gli occhi umidi. Non le era mai successo, in simili situazioni. Estrae il fazzoletto dal taschino del panciotto e si tampona le palpebre, cercando di non farsi scorgere da nessuno.

Ora l’artista dovrebbe alzarsi, prodursi in un inchino, ma non lo fa; resta seduto sul panchetto, a testa bassa, finché l’applauso non si spegne. Poi, con gesti rapidi, si scompiglia i capelli e si allenta la cravatta. Da un tavolino afferra un calice di champagne e ne beve un sorso. Protende le labbra, come per scoccare un bacio. Sbatte le palpebre, accavalla le gambe, pone le mani su un ginocchio, inclinando i polsi con leziosità; piega il capo, fa spallucce e cinguetta, con un accento inglese alquanto inverosimile: “I love life because life loves me”.

Tutti si sciolgono in risate, tranne Aurore.

“È uno dei suoi personaggi” le mormora Liszt in un orecchio. “La signorina inglese sentimentale”.

II

Sale al piano ammezzato, raggiunge il suo appartamento, serra il catenaccio della porta, entra nella camera. Estrae dal taschino il portasigari e lo ripone sul comò, si sfila la redingote con il bavero blu, sbottona il panciotto di panno grigio mélange. Si toglie i pantaloni con gli inserti in seta, la cravatta di batista e la camicia; via tutto, anche la biancheria, prima i mutandoni merlettati, poi la camiciola con quei ricamini che irritano un po’ la pelle. Ripone ogni capo di vestiario su una gruccia separata e appende le grucce nel guardaroba, in bell’ordine, con cura.

Sotto la luce della luna che traspare dai vetri, la piacevole organizzazione che regna in quella stanza la conforta. Ogni cosa è al posto giusto: la scrivania, la libreria, gli oggetti personali, tutto è collocato secondo una logica che mira a sfruttare al meglio gli spazi ed evitare sprechi di tempo.

Si risciacqua il viso nel lavabo, infila la camicia da notte e la abbottona. Si accomoda davanti alla toilette e si ravvia i capelli, che sono ancora troppo corti; ci vorrà un altro anno, perché possa tornare a raccoglierli. Chissà Alfred de Musset cosa ci fa, con la sua chioma; se ancora la conserva, se l’ha buttata, se addirittura l’ha bruciata. Ebbe una crisi di pianto, quando lei se la mozzò e gliela fece recapitare a casa; tornò a picchiare alla sua porta, e fu l’ennesima riconciliazione dopo l’ennesima lite, prima della straziante rottura finale.

Musset ha mantenuto la promessa di scrivere un libro sul loro rapporto. La confessione di un figlio del secolo è uscito a febbraio e Aurore l’ha divorato, rimpiangendo quella stagione di delizie e di furori, ma anche rinforzando il proprio intento di non vivere più nulla di simile. Meglio concedersi relazioni basate sulla comunanza di idee, o su un’attrazione epidermica; meglio non farsi trasportare verso il cielo, visto che poi si piomba all’inferno.

Abbassa le cortine di garza sullo specchio, indossa la veste da camera e annoda la cinta alla vita. Siede alla scrivania e regola il lume al massimo; scioglie con un gesto deciso il nastro che racchiude la cartella del manoscritto, la spalanca, scorre i grandi fogli, rilegge gli ultimi paragrafi, svita il tappo del calamaio, vi intinge la penna e prosegue la stesura.

Sta lavorando a un romanzo ambientato prima della Rivoluzione dell’89; una storia d’amore, ma anche un manifesto delle sue idee sulla condizione femminile. Lo intitolerà Mauprat. “La mia mente era sconvolta” scrive. “I miei nervi irritati davano un gusto violento e malato alle mie sensazioni”.

Procede con facilità. Non le interessa raggiungere la perfezione, o qualcosa che vi si avvicini; non si sofferma troppo a chiedersi se le parole che utilizza siano quelle giuste, se i concetti siano espressi nel modo giusto, se la trama sia giustamente sviluppata. Sa bene come catturare l’interesse del lettore e procede quasi per forza d’inerzia, anche lasciando che la storia si delinei man mano; ha presente una linea di sviluppo, sa quale sarà la conclusione del suo romanzo, ma è disposta a svoltare in un’altra direzione, se in quel momento le sembrerà migliore.

Il suo procedimento potrebbe assomigliare a quello dell’improvvisazione musicale, invece ne è l’opposto. Lei non si getta nelle acque sconosciute, si trattiene in superficie. Della musica creata in modo estemporaneo non restano tracce, mentre i libri di George Sand saranno impressi in numerosi esemplari e tradotti in varie lingue. E poi, gli improvvisatori si esibiscono per un pubblico che li ascolta senza fiato, mentre lei crea di notte, immergendosi in una solitudine che custodisce gelosamente.

Posa la penna e si pulisce le dita con un panno. Quand’era bambina e sua nonna suonava il clavicembalo, le piaceva tanto sdraiarsi sotto lo strumento. S’insinuava sotto la cassa, adagiava la testa su un cuscino, ascoltava e fantasticava; i suoni le piombavano addosso, le penetravano nelle ossa. Un’esperienza impareggiabile. In tempi più recenti l’ha ripetuta con Liszt, sotto il pianoforte, ed è stata ancor più intensa.

Quando suona Chopin, lo sarebbe fin troppo; ne sarebbe accecata. Meglio non pensarci e tornare a scrivere.