Figlia del cuore

Estratto


NUMERO UNO

(la base di ogni cosa)

Tremilasettecentosettanta giorni fa abitavo con mio padre e mio fratello in un casermone pieno inzeppato di suore, tutte uguali, fatte in serie, a livello che non ne ho mai conosciuta veramente nessuna, e inzeppato soprattutto di sfigati come noi. Che invece eravamo tutti diversi. C’era il mondo, là dentro, tizi magri come uno stecco con la paglia sempre in bocca, donne sole sciamannate con un paio di mocciosi attaccati sempre al collo, vecchi rimbambiti che se ne stavano sempre per conto loro e non se li calcolavano manco gli scarafaggi eccetera. Adesso la residenza delle suore l’hanno chiusa e il simpatico ambientino si è insinuato nella società come una nuvola di microbi, alla faccia di chi voleva tenerlo accuratamente confinato lì, ma il punto non è questo. È che esattamente tremilasettecentosettanta giorni fa, in un pomeriggio più che mai luminoso, i Servizi sociali hanno fatto uno slalom tra i secchioni della monnezza per poi approdare alla nostra porta c/o le care sorelle. 

Un uomo e una donna, tanto distinti. Volevano parlare con mio padre, questione della massima importanza, però non era facile, perché mio padre l’italiano non l’ha mai imparato e i due gentilissimi individui don’t-speak-English. Si ostinavano a sillabare parole in italiano. Ogni tanto una parola in inglese veniva fuori, alleluia, ma non era quella giusta. Alla fine hanno capito che non c’era storia e se ne sono andati. 

Quel giorno si è avviata tutta una macchina che in questo giorno esatto smette di girare, perché oggi faccio diciotto anni e il Tribunale per i minorenni non mi vede più manco dipinta, in caso non fosse chiaro. 

Chissà come mai i Servizi sociali erano spuntati tipo muffa nella nostra allegra esistenza. Qualcuna delle maestre, che evidentemente non aveva di meglio da fare, doveva essersi impicciata dei fatti nostri. Io e Obani, che sarebbe mio fratello, andavamo a scuola tutte le sante mattine, nessuna esclusa, perché nostro padre diceva che: (a) non dovevamo creargli problemi, (b) dovevamo approfittare della mensa. Allora, per farlo contento, io mi pappavo due porzioni di ogni cosa e razzolavo anche tra quello che gli altri bambini lasciavano nel piatto, infatti ero grassa e i miei compagni mi prendevano in giro un giorno sì e l’altro pure. Forse mi sfottevano anche perché, caso strano, ero l’unico cioccolatino in mezzo a un gran vassoio di mozzarelle, comunque la cosa mi lasciava indifferente tant’è vero che non parlavo con nessuno e non guardavo in faccia a nessuno e della cartella e dei libri e dei quaderni e delle penne e della gomma da cancellare non me ne fregava un tubo. (Che poi queste cose nemmeno le avevo, perché mio padre diceva che non servivano a niente.) 

E invece era fantastico quando, alla fine dell’incommensurabile rottura di palle, io e Obani ci ritrovavamo fuori al cancello, ci prendevamo per mano e tornavamo nel casermone delle suore, divoravamo un pacco di patatine, accendevamo la televisione e ci addormentavamo lì davanti finché papà non rientrava dai suoi giri. Lui praticamente viveva per la strada, ma alla sera tornava sempre, e se in tutto questo putacaso vi state chiedendo dove cavolo fosse nostra madre, cioè la nostra prima madre, visto che poi ce ne sono state delle altre, io non sono sicura di potervelo dire. Non è per niente facile neppure adesso, e all’epoca, se già parlavo poco, di questo non avrei parlato in nessun caso. 

I Servizi sociali non mollavano. Si sono presentati un’altra volta, tremilasettecentotrenta giorni fa virgola qualcosa, e senza tanto mettersi a cercare di fare ragionamenti mi hanno presa per un orecchio e mi hanno portata dal dottore. Per dirla tutta, da una sfilza di dottori. Prima c’è stata la dottoressa che non sembrava una dottoressa perché non mi ha visitata ma mi ha tempestata di domande ridicole, voleva sapere chi era la mia amica del cuore ma quale amica del cuore, voleva sapere chi cucinava per me e per mio fratello ma quale cucinare, voleva sapere se mio padre mi raccontava la favola della buonanotte ma quale favola. Ho fatto scena muta, il che mi veniva in modo formidabile. Poi c’è stato un dottore maschio che mi ha bombardata di domande ancora più imbecilli, se ci stanno quattro galline e due se le mangia la volpe quante galline rimangono, cose di questo livello, e con uno così, che di me non aveva capito un fico secco, valeva ancor meno la pena di sprecare il fiato. A un certo punto è arrivata pure la cosiddetta logopedista la quale invece, non so come, è riuscita a farmi spiccicare due parole e prima di mandarmi via ha dichiarato, con una faccia da maestrina coscienziosa, che bisognava correggermi la zeppola e lavorare su alcune consonanti. Il che per me non voleva dire niente, perché le consonanti non sapevo cosa fossero. 

Alla fine di tutta la manfrina, un pomeriggio di tremilacinquecentoottantacinque giorni fa tondi e precisi, i furbacchioni dei Servizi mi hanno accompagnata ai giardinetti e mi hanno presentato un’amica loro, così l’hanno definita mentendo spudoratamente perché l’amicizia non c’entrava un accidente e questa tizia, con un’aria stranamente allegra, ha pronunciato le seguenti parole: «Ciao, Ayodele, io sono Sara». 

Non è che mi facesse una simpatia eccessiva, a guardarla ben bene. Era proprio una marziana, piccoletta, bionda slavata e dalla pelle così bianca che era quasi trasparente, mi pareva difficile che potesse esistere una persona più diversa da me.