La sorella di Mozart

Estratto


OUVERTURE

Salisburgo, 21 febbraio 1777

Carissima Fräulein Mozart!

Affido questa lettera a Victoria, alla vigilia di una missione che mi terrà lungamente lontano dalla città, giacché desidero che abbiate tra le mani, mia giovane e deliziosa amica, qualcosa che nel frattempo mi ricordi a voi. È un desiderio audace, ne sono consapevole, ma più forte della modestia è il mio timore che quanto è accaduto quella notte si dissolva nei gesti quotidiani, e non lasci tracce.

Il pensiero di voi mi ha accompagnato dal momento in cui vi ho vista dileguarvi nel buio dei vicoli. Non volevo che vi allontanaste da me, anche se sono stato io stesso a insistere; non sarebbe stato opportuno, ritengo, trattenersi ancora, rischiando d’essere scoperti da una ronda di passaggio. Non so quali giustificazioni abbiate fornito ai vostri familiari per il rientro tardivo e non intendo chiedervelo; sono certo che non mi abbiate coinvolto nella questione e tanto mi basta. La piccola Victoria, da parte sua, dormiva profondamente e quando l’ho pregata di recapitarvi questa mia non ha battuto ciglio. Credo anzi le abbia fatto piacere.

Fräulein Mozart cara, sappiate che è alquanto raro incontrare una persona che possieda la vostra profondità e chiarezza di pensiero, e sensibilità spiccata e viva. È stata per me una piacevolissima sorpresa scoprire queste doti in voi, giacché a Salisburgo (spero non vi dispiaccia la mia franchezza) siete piuttosto conosciuta come una donna chiusa, scostante e di temperamento collerico. Voi sapete che io non frequento i salotti del bel mondo e non indulgo volentieri nella chiacchiera; sarebbe anche disdicevole, data la mia posizione. Ma ogni qualvolta mi è avvenuto di sentirvi nominare, a palazzo, da un collega o un sottoposto, è stato per far da contraltare a vostro fratello Wolfgang: lui tanto vivace, in grado d’intrattenere ampie platee, non solo attraverso la musica, ma anche grazie a una parlantina sciolta e motti di spirito talvolta salaci; per non menzionare la sua bontà d’animo, della quale addirittura si favoleggia; di voi, invece, si afferma l’esatto contrario!

Senza mezzi termini vi dirò che la ritengo una vergogna. Per qual ragione celate al mondo i vostri lati più affascinanti e amabili, quelli che io ho avuto il privilegio di scorgere?

Tuttavia del mondo, e del pettegolezzo, m’importa poco. Ciò che conta per me, sinceramente, è darvi un segno della mia amicizia; di un’amicizia che spererei affettuosa, se mi consentite l’ardire. Sarei oltremodo lieto di godere ancora della vostra compagnia, non appena sarò tornato a Salisburgo, e fino ad allora di continuare a scrivervi, e leggere con gioia le risposte che sperabilmente vorrete inviarmi. Victoria, quando verrà a lezione di musica, potrebbe portarvi le mie lettere e ritirare le vostre che poi potrebbe spedirmi, evitandovi l’imbarazzo di fornire inutili spiegazioni ai vostri congiunti.

Se però non nutrite gli stessi miei sentimenti, mi ritirerò nell’ombra senza una parola e non vi disturberò oltre, non abbiate timore. Non avete neanche da opporre un rifiuto: limitatevi a non rispondermi; e vi prego, in tal caso distruggete questo foglio.

Con ossequiosa ammirazione,

Maggiore Franz Armand d’Ippold

Salisburgo, 28 febbraio 1777

Caro Armand,

mi è venuto il sospetto che Victoria abbia letto la vostra lettera… e forse stai leggendo anche questa, ragazzaccia! Ripiegala subito e non osare impicciarti, hai capito? Altrimenti non avrai più da me una sola lezione e le tue preziose manine si ridurranno ad arbusti rinsecchiti!

Ed ecco che si leva quello specchio di scarsa condiscendenza e irrisione dietro il quale abitualmente mi nascondo, e dietro il quale ho scelto di non nascondermi a voi, signor Maggiore. Perché celarsi al mondo e rivelarsi a pochi? Credetemi, non lo faccio di proposito; ma so che, dopotutto, il piccolo universo che frequento è poco interessato al mio comportamento personale. Sopra ogni cosa preme che istruisca con perizia le giovani musiciste; e se ho una certa fama di scorbutica, nessuno dubita che sia un’insegnante capace; questo mi gratifica e mi appaga. Se un tempo, in una fantasia troppo accesa di bambina, coltivavo più alte ambizioni musicali, oggi di quel che ho sono lieta e all’arte non chiedo nulla, davvero nulla, in più.

Ma ora basta con le giustificazioni… tengo la vostra lettera qui accanto, sul tavolino, e la luce del candelabro scalda le vostre frasi già affettuose, che tanta emozione hanno suscitato in me. Una goccia di cera si è posata accanto alle parole “piccola Victoria”, facendomi sorridere con aumentata tenerezza per chi porta quel nome, per chi glielo ha dato e per quell’aggettivo (perdonatemi…) un poco incongruo. Forse, mio buon Armand, Victoria sarà in eterno la vostra “piccola”; eppure ha la stessa età di Wolfgang, cinque anni meno di me; quindi ha passato i venti, ormai.

Mio padre, pensate, smise di considerarmi una bambina che avevo appena dodici anni… ma adesso che ne parlo con voi, chiedo a me stessa se sia stato un bene.

Vi scrivo in verità senza controllo, nel cuore della notte che mi è sempre stata amica, buttando giù i pensieri come vengono; poiché voi siete il primo che mi consenta di farlo; il primo che non mi abbia giudicata. Per questo io non temo di svelarmi a voi; e anche per questo desidero rivedervi e riabbracciarvi.

Sì, Maggiore d’Ippold; anch’io vi ho avuto in mente dall’istante in cui ci siamo salutati, quella notte; e il pensiero di voi mi accompagna con costanza, in ogni attimo di veglia, e sono felice, sì, d’intraprendere con voi questo carteggio, felice quanto mai, forse, sono stata.

Mi fermo qui, per ora. Tutto il resto può esser centellinato e goduto in ogni sillaba. Non credete, mio carissimo?

Con gratitudine e affetto,

Nannerl Mozart

Vienna, 10 marzo 1777

Mia cara, carissima Nannerl!

La vostra lettera mi ha reso felice come non ricordavo di poter essere. Voi, dolcissima giovane donna, avete risvegliato in me sensazioni che ero ormai convinto mi fossero precluse per sempre. In questi giorni ho affrontato ogni mansione a cuor leggero e persino gli altri ufficiali si sono accorti del mio stato d’animo. Grazie, Nannerl, grazie di cuore! Malgrado la distanza, io riesco a sentirvi vicina, e mi pare quasi di poter accarezzare il vostro bel viso. Tuttavia non credo di conoscere le parole giuste per esprimere quel che provo; non sono mai stato bravo a disquisire di certi argomenti. L’unica cosa che posso dirvi è che vagheggio il nostro prossimo incontro e desidero fare tutto il possibile affinché il clima tra noi sia sereno, e foriero di amorevoli sviluppi.

Scrivo anche a Victoria, su un foglio separato, e le proibisco di leggere la nostra corrispondenza. Ma voi conoscete mia figlia e sapete che, malgrado tema l’autorità paterna, è abilissima nel violare con grazia i dettami che essa le impone. Dunque, nel rispondermi, ve ne prego, non dimenticate mai che la ragazza (poiché avete ragione, Nannerl cara, Victoria è ormai quasi ragazza da marito!) potrebbe “impicciarsi” (come dite voi) dei nostri scambi di pensieri.

Ripensando a Victoria e a quanto mi ha raccontato di voi come insegnante e musicista, e rileggendo la vostra lettera, rilevo qualcosa di stridente, qualcosa che voi esperte chiamereste una “dissonanza”. (Posso permettermi queste osservazioni, non è vero?)

Voi, Nannerl mia cara, affermate di aver avuto un tempo più alte ambizioni musicali ma di averle con grazia e senza rimpianti abbandonate: è quell’assenza di rimpianto che, a mio parere, è poco convincente. So che componevate fin dalla prima infanzia (poiché me l’ha detto Victoria) e fino a qualche tempo fa (e questo è noto a tutti) vi esibivate spesso come pianista, in coppia con vostro fratello o anche da sola. Ma d’un tratto avete bruscamente interrotto l’una e l’altra attività per dedicarvi solo all’insegnamento; disperdendo in tal modo (perdonatemi se oso, ma ho ormai accertato che la mia franchezza non vi ferisce) il vostro rarissimo talento.

Davvero una scelta del genere è stata fatta senza rincrescimenti? E davvero (ciò che più conta) si tratta di una scelta irrevocabile? Forse, se ritornaste sulla vostra decisione, potreste riassaporare gioie che vi scalderebbero il cuore. Se vi dico tutto questo, credetemi, è solo perché la vostra felicità mi preme più della mia; anzi, perché la mia non ne è che un’affettuosa conseguenza.

Con rispetto e stima,

Maggiore Franz Armand d’Ippold

Salisburgo, 24 marzo 1777

Armand,

il mio primo impulso è stato di rispondervi con estrema durezza, ma in seguito mi sono fatta forza e ho atteso per una settimana intera che l’irritazione scemasse in me. Di conseguenza solo adesso, e sempre tentando di non trascendere, vi dico: voi non volete che io faccia domande sulla povera Monika, giusto? La vostra dolce sposa, che purtroppo non è più tra noi, è un argomento che non mi è concesso neppure sfiorare. Allora, allo stesso modo, vi pregherei di non fare illazioni di alcun genere sul mio abbandono dell’attività concertistica e della composizione.

I vostri discorsi, signor Maggiore, sono sale sulla ferita. Una ferita che sanguina ogni giorno, perché in ogni istante, anche in questo preciso istante, esattamente come quand’ero bambina, la musica preme dentro di me per uscire; è come l’onda d’assalto di un’ubriacatura che dalle mie viscere si spinge fino alla gola e al cervello e lo fa turbinare; è una tempesta interna che non può trovare sfogo, dunque l’unica mia possibilità è ignorarla e dedicarmi ad altro. Vi è chiaro, adesso, Armand? L’insegnamento, e particolarmente a Victoria che come ben sapete è la mia migliore allieva, è l’unico angusto sentiero nel quale io riesca a convogliare e costringere questo marasma e farlo tacere, almeno per un poco. E voi, come anche mio fratello, mi venite a dire che sto sprecando il mio talento? Con quale diritto?

Perdonatemi; non sono riuscita a moderare i toni. Non so neanche se vi farò avere questa lettera. Forse farei meglio a stracciarla, e aspettare altro tempo, e in seguito fingere di aver dimenticato le vostre parole.

Nannerl Mozart

Vienna, 5 aprile 1777

Mia dolce amica (con tutto il cuore spero siate ancora mia amica),

avete fatto benissimo a farmi spedire la vostra lettera, che ho finito di leggere in questo istante; e avete fatto ancor meglio a rimproverarmi l’indebita intromissione in questioni che non mi riguardano e delle quali non capisco proprio nulla. Vi prego sinceramente di scusarmi e vi assicuro che, se ora foste qui, vi chiederei perdono in ginocchio e non avrei pace finché non l’avessi ottenuto.

L’idea di avervi irritata mi tormenta, poiché è l’esatto contrario di quel che volevo ottenere. Ma la verità è una sola: se voi avete affermato d’essere felice che io, tra i primi al mondo, non giudicassi i vostri comportamenti, invece io l’ho fatto, come l’ultimo degli sciocchi, intromettendomi in una decisione della quale vi siete assunta ogni responsabilità; e ho anche cercato di farvi recedere da tale decisione, come per trasformarvi in qualcuno che voi, mia carissima perfetta creatura, non siete.

Mentre scrivo, di getto, il mio pensiero va avanti, correndo più veloce della penna, alla frenetica ricerca di un qualcosa ch’io possa fare per riparare. Cosa posso fare? Vi prego di cuore: ditemelo, Nannerl. E con il cuore in mano vi imploro di non tagliarmi fuori dalla vostra vita. Vi giuro che mai più farò domande o deduzioni avventurose sulla vostra musica, mai più. Ma vi supplico, lasciate ancora uno spiraglio aperto alla nostra amicizia.

Con dolore e pentimento,

Armand

Salisburgo, 15 aprile 1777

Armand caro,

L’idea di escludervi dalla mia vita non mi ha mai sfiorata, mai. Se così fosse stato, non solo non vi avrei spedito la mia precedente, ma non l’avrei neppure scritta. Anzi: io desidero che voi, di me, conosciate il più possibile.

Per questo, meditando sul piccolo incidente che abbiamo avuto e del quale sono io a dovervi chiedere perdono, mi sono sorpresa a pensare che il vostro intento di mai più parlare della mia musica non getti una buona luce sul futuro; che in esso vi sia qualcosa di erroneo (per colpa mia, e di nessun altro).

Quindi ho deciso di raccontarvi tutto. Sarò io a farlo; non lascerò che voi mi poniate domande che al momento avreste timore di pormi. Vi resta naturalmente, mio carissimo confidente e amoroso amico, la libertà d’interrompere la lettura e interloquire con me, e scrivermi d’altro, in qualunque momento lo desideriate…

IL REGNO DI DIETRO

I

«Ti prego, mio bene, andiamo a casa. Chiama una carrozza, presto» mormorò la donna accasciata sulla poltroncina, circondandosi il grosso ventre con le braccia. Il marito non rispose: attendeva che la pessima clavicembalista terminasse la ridicola esibizione. Nell’accarezzare i tasti,  muoveva morbidamente le spalle, sorrideva, chiudeva le labbra e le riapriva, come scoccando baci; ogni nobiluomo nella sala aveva la certezza di potersi godere quelle labbra, se avesse voluto.

«Mio tesoro, dico sul serio. È meglio andare».

«Tra un attimo» ribatté lui, mentre scattava un flebile applauso. Poi si volse e sobbalzò. «Dov’è andata?»

«Lì, guarda. Ma fate in fretta, per favore».

Lui si precipitò a raggiungere la bimbetta che, accucciata in un angolo, apriva e chiudeva ripetutamente un ventaglio. Glielo strappò di mano, la fece alzare e le assestò il vestitino.

«Sii brava, Nannerl; brava come sempre, angelo mio» pregò con un tremito d’ansia nella voce, mentre lei sgranava gli occhi azzurrissimi ed emetteva bizzarri monosillabi.

Quella bambina era strana.

«Sei pronta?»

Lei fece cenno di sì, sempre parlottando tra sé.

«Allora vai. Adesso!»

Il sussurro si perse nel venticello di chiacchiere che iniziava a sollevarsi nel salone. La bimba trotterellò fino allo sgabello del cembalo e vi si arrampicò.

«Scusate! Illustrissime signore, rispettabili signori, un attimo di attenzione».

Il cicaleccio s’interruppe e tutti gli sguardi si volsero allo sconosciuto. Non era un aristocratico; doveva essersi infiltrato attraverso chissà quale raccomandazione. Poteva essere addirittura un musicante di professione. Tra i patrizi di Salisburgo iniziò a serpeggiare un certo fastidio. Un’altra esibizione proprio adesso che si stava tornando al pettegolezzo, al corteggiamento, all’ostentazione di sé? E che musica avrebbe mai potuto produrre quella nanerottola bionda dalle manine paffute, che arrivavano appena all’estensione di una quinta?

«Sono onorato d’introdurre alla vostra attenzione questa spettacolare bambina prodigio, Maria Anna Walburga Ignatia Mozart. È una delle migliori cembaliste che abbiano mai toccato uno strumento e, incredibile a dirsi, ha solo cinque anni. Io, Leopold Mozart, suo padre, ho potuto avvedermi del suo immenso talento grazie alla mia  attività di musicista, in servizio presso la Corte di Sua Eccellenza il Principe Arcivescovo. Sarebbe stato un oltraggio a Dio stesso se tale dono fosse rimasto ignoto e non coltivato…»

Il fastidio divenne palpabile. Che il concertino iniziasse presto e finisse ancor prima e che quel saltimbanco la smettesse di farsi bello! Herr Mozart se ne accorse e rapido tornò accanto alla moglie.

D’impeto la bambina attaccò a suonare e fu come se un fulmine avesse squarciato il soffitto affrescato, e incenerito i tendaggi e gli arazzi. Quando faceva musica, la piccola Nannerl non aveva nulla di umano; sembrava ci fosse in lei una divinità primitiva, che aspettava solo di accostarsi a uno strumento per debordare e lasciare stupefatti. Le sue manine srotolavano suoni limpidi e velocissimi, obbedivano a un istinto armonico ineguagliabile e il risultato era insieme sicuro e disordinato. Il contrasto tra la sua maestria adulta e il suo corpo immaturo era strabiliante. Le sue note erano parole di un linguaggio ancora ignoto, che affascinava e disorientava. Dov’è il trucco? No, non c’è trucco. Eppure deve esserci! I blasonati si accostavano, controllavano, ammutolivano, e intanto la bimba estraeva dalla mente melodie che le ispirava il crepitio del fuoco nei camini, o l’infrangersi a terra di un bicchiere caduto dalle mani maldestre di una dama.

D’improvviso smise di suonare, senza nemmeno concludere il brano. Saltò giù dallo sgabello, corse dal padre, riprese il ventaglio e ricominciò ad aprirlo e chiuderlo, dondolandosi da un piede all’altro, bisbigliando strambi vocaboli.

L’ovazione deflagrò improvvisa e fece vacillare i vetri e le pareti. Era lo schianto di un tronco secolare, il fragore di una cascata. Le dame si fecero attorno a Leopold Mozart, che prese la figlia in braccio e la esibì a mo’ di trofeo, stringendo mani ingioiellate, porgendola a bocche imbellettate. Nannerl, tuttavia, non mostrava interesse per quell’apprezzamento: il ventaglio assorbiva tutta la sua attenzione.

Nessuno poteva udire i rauchi appelli della donna sulla poltroncina, la cui espressione s’era fatta attenta a uno straordinario rivolgimento interno; alzò la voce, ma tutti continuavano a ignorarla, finché dovette esplodere in un urlo stridulo: «Leopold! Merda secca!»

Chi la udì non parve travolto dallo scandalo; la guardò piuttosto come un esemplare di una specie aliena.

Con grande sforzo lei prese fiato e parlò ancora, reggendosi la pancia: «Leopold, ci siamo, lo vuoi capire o no?»

II

Dalla porta della stanza da letto provenivano suoni mai uditi. Erano grida e lamenti, quelli della mamma; Nannerl era in pena e non le era chiaro se suo padre e la grassona del piano di sotto la stessero aiutando o le stessero infliggendo una tortura. Perché il papà le aveva proibito di entrare? Bisognava intervenire. La bimba osservava la maniglia di madreperla sulla porta, troppo alta perché potesse raggiungerla, e avrebbe voluto essere già grande.

D’un tratto trapelò un urlo acutissimo che la riempì di terrore e la fece indietreggiare con un balzo; si udì anche la voce del padre, concitata, e quella isterica della grassona. Nannerl si rifugiò sotto il cembalo e ficcò i mignoli nelle orecchie, più a fondo che poté; ecco, non udiva più quel grido. Ma poi riemerse dalla sua memoria nella forma di un ritornello amplificato, distorto, disumano. Lei spalancò la bocca e scoppiò in lacrime.

Giunse suo padre, ma Nannerl non se ne accorse: piangeva troppo forte. Leopold dovette attirarla a sé, abbracciarla, stringerla, mentre lei si dibatteva nel suo incubo sonoro; a lungo rimasero sul pavimento accanto al cembalo, aggrappati l’uno all’altra.

Quando lei si fu calmata, lui sedette sullo sgabello e le puntò un dito sul nasino: «Figliola, promettimi che non piangerai più. Mai più, in tutta la vita. Ricorda: le lacrime sono inutili».

Nannerl annuì, asciugandosi il viso con la manica.

«Ora ascoltami. La mamma sta bene, e tu hai un fratellino».

La bimba rimase immobile e stupita.

«Sì, proprio così: un bel maschietto, tutto rosa e tutto pelato. Si chiama Wolfgang. Vuoi vederlo?»

Certo! Varcò la soglia come una freccia, ma l’immagine di sua madre la sconvolse. Era nel letto, prostrata, e anche se le sorrideva c’era qualcosa di anormale in lei; tutto era anormale nella stanza; in terra, ai suoi piedi, c’erano stracci intrisi di sangue e la grassona ce ne gettò sopra un altro, con il quale s’era appena pulita le mani. Poi però Nannerl vide la culla e il senso di orrore in lei svanì d’incanto, lasciando il posto a un intenso desiderio di scoprire quale creatura fosse racchiusa in quella cassetta. Cautamente vi si accostò e spinse lo sguardo all’interno, godendo ogni frazione di quell’istante memorabile. Wolfgang era tutto rosa e pelato, sì, e non aveva coscienza. Vagiva dalla bocca piccola e senza denti e aveva la testa allungata come un fagiolo. I suoi occhi sembravano non cogliere lo spazio attorno, i suoi gesti erano goffi e insensati; ma nello stesso istante in cui lo vide, Nannerl lo amò con tutta se stessa.